L’obbligazione camerale nei documenti dell’Accademia di San Luca
Antonia Fiori
Premise
L’obbligazione camerale, o in forma Camerae, è un istituto giuridico poco noto, anche agli storici del diritto, ma adottato con altissima frequenza nello Stato Pontificio nel corso dell’età moderna[1].
Nello Stato della Chiesa, infatti, la formula di obbligazione camerale era apposta in tutti i contratti nei quali vi fosse, da parte di almeno uno dei contraenti, un’obbligazione di tipo pecuniario, ma veniva usata a più ampio spettro, in tutti quei casi nei quali si voleva certezza e celerità dell’adempimento.
“In Statu Ecclesiastico fere semper stipulantur contractus sub obligatione Camerali”, affermava una decisio della Rota nel 1644[2]. Si può aggiungere, per esemplificare la sua importanza, che la magnifica Roma rinascimentale e barocca è stata realizzata stringendo con artisti e maestranze contratti a vario titolo costellati di obbligazioni in forma Camerae.
Nell’ambito artistico emerge infatti con grande chiarezza l’estrema rilevanza dell’obbligo camerale nel regolare i rapporti giuridici, sia tra i privati che tra la committenza pubblica e i privati.
Solo per fare alcuni esempi, basati su contratti che ci sono noti, per la tomba di Giulio II Michelangelo Buonarroti fu ingaggiato con obbligazione camerale[3]; con la stessa formula si impegnarono Caravaggio, per opere da eseguire in San Luigi dei Francesi[4] e in Santa Maria del Popolo[5], Nicolas Cordier per la statua in bronzo di Enrico IV di Francia nella basilica di San Giovanni in Laterano[6], Rubens per il trittico dell’altare maggiore della Chiesa Nuova[7]. Per la cupola della Sapienza, che si temeva troppo pesante, Francesco Borromini prestò garanzia impegnandosi con obbligazione camerale[8].
Anche i documenti trascritti e digitalizzati nel progetto di ricerca della National Gallery of Art, The History of the Accademia di San Luca, c. 1590–1635: Documents from the Archivio di Stato di Roma, testimoniano quanto frequente fosse il ricorso all’obbligazione camerale nei rapporti giuridici che fondavano l’attività degli artisti romani.
Lo statuto dell’Accademia prevedeva che qualsiasi “imprestanza” agli associati (mutuo o comodato) dovesse essere formalizzata con obbligazione camerale[9]. Ma erano moltissime le tipologie di obblighi assunti in forma camerale: locazioni, fideiussioni, censi, etc. In forma Camerae gli artisti si obbligavano anche alla tassa sulle stime, ovvero al pagamento all’Accademia del 2% del valore stimato dell’opera: infatti, quella che gli Statuti chiamavano la Forma della Polliza da farsi & sottoscriversi da quelli che vorranno le stime[10], trova nei documenti notariali espressione come obbligazione camerale. Tra le molte[11], c’è ad esempio quella di Guido Reni, che nel 1609 promette il 2% di quanto riceverà per i lavori fatti al Palazzo Apostolico, ancora da stimarsi[12]. Nel 1607, il curato della Chiesa di San Luca, Andrea Glacisco, dopo aver ricevuto l’inventario dei beni mobili reperiti nella sacrestia della chiesa, si obbligava con forma camerale a darne conto a qualsiasi richiesta dell’Accademia[13]. In forma Camerae i membri della congregazione segreta si obbligarono nel 1621 al rispetto del breve di Gregorio XV che aveva confermato gli Statuti dell’Accademia[14]. O ancora, i deputati della Congregazione dei Pittori si impegnarono con formula camerale a far celebrare delle messe in suffragio nella Chiesa di San Luca[15]. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Nelle pagine che seguono si cercherà di illustrare (1) le origini e la storia dell’obbligazione camerale; (2) a chi spettasse la giurisdizione su di essa; (3) in cosa consistesse l’executio parata che essa garantiva e in che modo fosse collegata a una scomunica; (4) quale fosse il ruolo dei notai nella procedura (5) quali fossero le modalità dell’esecuzione. A questo proposito si cercheranno di evidenziare le differenze tra lo stylus antiquus dell’obbligazione in forma Camerae (ante 1570), e lo stylus modernus, adottato in modo esclusivo nei documenti dell’Accademia. Infine, nelle Conclusioni, si darà qualche indicazione su come riconoscere la formula camerale negli atti notarili. Un’appendice (verosimilmente non esaustiva) fornirà un elenco di documenti dell’Accademia—presenti nel database del sito della National Gallery of Art—in cui essa è riprodotta in forma abbreviata.
1. Le origini dell’obbligazione camerale
L’obbligazione camerale o in forma Camerae prende il nome dalla Camera Apostolica, il dicastero preposto alla gestione finanziaria ed economica della Santa Sede. Inizialmente, infatti, era stata creata a garanzia dei crediti camerali che consistevano per lo più in annate, cioè tasse gravanti sui benefici ecclesiastici sparsi ovunque nel mondo. La soddisfazione di questi crediti, di natura fiscale, era complicata per due ragioni. Innanzi tutto, per l’oggettiva difficoltà di ottenere un’esecuzione forzata in regioni lontane e sottoposte a giurisdizioni estranee. In secondo luogo, perché molti debitori non pagavano tempestivamente, ma preferivano attendere di essere condannati da tre sentenze conformi: dopo le quali, secondo il Diritto comune, non si potevano più presentare appelli e la decisione passava in giudicato.
Il rimedio adottato, di cui dà già testimonianza Guglielmo Durante nello Speculum Iudiciale (ca. 1290)[16], era efficacissimo nell’ovviare ad entrambi i problemi: si faceva giurare all’obbligato di adempiere entro un certo termine o altrimenti rinunciare a qualsiasi eccezione o appello; poi, lo si ammoniva che, in caso di mancato adempimento, sarebbe stato automaticamente scomunicato. In questo modo, attraverso il suo vescovo, il debitore poteva essere colpito dalla scomunica ovunque si trovasse.
Questa procedura fu molto criticata durante il Concilio di Costanza, all’inizio del ’400, per il suo carattere vessatorio, data l’indubbia sproporzione di forze tra chi la imponeva e chi la subiva. Venne definita violenta, contraria al diritto, addirittura simoniaca[17].
Dopo il Concilio, il pagamento delle imposte beneficiali venne regolato dalla Chiesa in base a concordati con i singoli Stati: questo comportò un uso più limitato delle obbligazioni camerali che, a partire dal Cinquecento, vennero impiegate prevalentemente nei contratti tra privati.
La vita dell’obbligazione camerale fu lunga, e si concluse solo agli inizi del XIX secolo: il Codice di procedura civile di Pio VII, del 1817, abolì gli effetti della clausola per l’avvenire. Questo provvedimento, pur confermato da Leone XII (1824) e da Gregorio XVI (1831), non fu però inserito nel Regolamento di procedura nei giudizi civili del 1834, che abrogava espressamente i codici precedenti: per questo motivo, ancora per qualche tempo dopo la sua promulgazione si continuarono a promuovere cause derivanti da contratti stipulati con formula camerale, il cui effetto fu dichiarato cessato definitivamente solo nel 1843[18].
2. Un’attività redditizia: la giurisdizione sull’obbligazione camerale dell’Auditor Camerae, della Curia capitolina, del tribunale del Vicario e degli altri
La procedura esecutiva che nasceva dai contratti dotati di formula camerale era riservata – almeno teoricamente – alla giurisdizione di un organo giudiziario nato da una costola della Camera Apostolica, e poi divenuto indipendente: il tribunale dell’Auditor Camerae (d’ora in poi A.C.)[19]. Era un giudice ordinario dotato di poteri immensi, tanto da esercitare sia il gladio secolare che quello spirituale. Le sue prerogative vennero definite per la prima volta nel 1485 da Innocenzo VIII, con la bolla Apprime ad devotionis[20].
Il suo ufficio era composto di un certo numero di giudici, luogotenenti civili e militari, e da un’articolata struttura notarile che arrivò a comprendere fino a dieci uffici. La sede era, dopo la creazione da parte di Innocenzo XII alla fine del Seicento della cd. Curia Innocentiana, il palazzo di Montecitorio.
Gli uffici dell’A.C. erano sempre oberati di lavoro e la loro attività più remunerativa, da cui di fatto dipendevano economicamente, consisteva proprio nella redazione dei contratti in forma Camerae e nella loro esecuzione forzata. Proprio perché si trattava di un’attività molto redditizia, diversi tribunali contesero all’A.C. questo privilegio.
Per salvaguardare le prerogative dell’A.C., nel 1513 Leone X indicò la giurisdizione sulle obbligazioni camerali come esclusiva dell’Auditor Camerae. Nel motu proprio Iniunctum[21] egli diffidava qualsiasi altro giudice dall’occuparsene, sotto pena di scomunica e di sanzioni pecuniarie. L’unica deroga era prevista per l’eventualità che questioni inerenti un’obbligazione camerale fossero sorte nel corso di un diverso processo, ed allora era concesso che in quella stessa sede giudiziaria il contratto avesse anche esecuzione.
L’intervento di Leone X ebbe però poco successo: lo stesso papa lamentò dopo pochi anni che, con diversi pretesti, la giurisdizione esclusiva dell’A.C. continuava ad essere insidiata[22].
Furono perciò necessari ulteriori provvedimenti pontifici. Pio IV se ne occupò nel 1561 con la costituzione Ad eximiae devotionis[23] e nel 1562 con la costituzione Inter multiplices[24]. Per la prima volta parlò espressamente di “privativa” sulle obbligazioni camerali e concesse uno speciale privilegio ai Romani.
In via generale, infatti, in base a quanto stabilito da Sisto IV nel 1473[25], la giurisdizione sugli abitanti e i cittadini laici di Roma era della Curia del Senatore, e che quella sui chierici romani del Vicario papale. Le cause di obbligazione camerale erano però riservate all’A.C.
Pio IV, invece, concesse ai Romani la possibilità di chiedere l’esecuzione delle obbligazioni in forma Camerae anche dinanzi alla Curia capitolina. Il privilegio, già accordato con il motu proprio Dilectos filios senatorem[26] e confermato nella Ad eximiae devotionis[27], venne inizialmente aggiunto in appendice all’edizione dello Statuto romano del 1567, poi, a partire dallo Statuto gregoriano del 1580, le sue disposizioni confluirono nel cap. 41 (De foro competenti) del libro I.
Il privilegio di Pio IV era un evidente segno di rispetto per il Comune, e fu confermato dai pontefici successivi. Anche se, secondo Giovanni Battista De Luca, i romani continuarono a preferire l’A.C. per le obbligazioni camerali, per via della sua alta specializzazione[28].
Pio V aprì invece alla giurisdizione del tribunale del Vicario sulle obbligazioni camerali. Lo fece, inizialmente, con il motu proprio Considerantes del 1566[29], in relazione alle persone ecclesiastiche ed ai loca pia, e vi tornò al momento della riforma del tribunale dell’A.C. introdotta il 20 novembre 1570 con il motu proprio Inter illa[30]. Stabilì che – pur nel riconoscimento dell’esclusiva competenza dell’A.C. quanto alla cognitio ed alla executio delle obbligazioni camerali – i debitori, quando cittadini romani laici, avrebbero potuto essere convenuti dinanzi alla Curia capitolina, mentre se chierici, romani per origine o per beneficio, si sarebbe ad essi applicato il principio della prevenzione tra A.C. ed ufficio del Vicario: ovvero il giudice adito per primo avrebbe potuto proseguire la causa.
Paolo V confermò questa regola con la costituzione Universi agri dominici (1612)[31]. Nonostante la norma rappresentasse, secondo il comune giudizio, la definitiva sistemazione della materia, dopo sessant’anni la giurisdizione del Vicario sulle obbligazioni camerali iniziò a divenire oggetto di altalenanti riforme: fino al 1742, quando con la costituzione Quantum ad procurandam, Benedetto XIV riportò la giurisdizione del Vicario entro i confini fissati dalla riforma di Paolo V[32].
Per quanto riguarda le obbligazioni camerali contratte da romani, dunque, entravano in gioco il tribunale del Vicario nel caso di chierici, il tribunale del Senatore (la curia capitolina) per i cives laici.
Ai provvedimenti pontifici sulla giurisdizione in materia di obbligazioni camerali, bisogna aggiungere l’indirizzo giurisprudenziale della Rota romana che, nel corso del Seicento, limitò ulteriormente la privativa dell’A.C. all’interno della Curia, sostanzialmente escludendo che l’A.C. potesse riassumere cause di obbligazione camerale introdotte dinanzi ad altri tribunali extra Romanam Curiam.
La privativa, in fin dei conti, venne rispettata assai poco: la violavano il tribunale del Camerlengo e la Camera Apostolica, “prorettori e giudici delle basiliche, ospedali, chiese, congregationi e luoghi pii”, i consoli delle arti e dei mercanti senza averne alcun titolo e, nel caso di obbligazioni camerali stipulate da detenuti, se ne occupava il Presidente delle Carceri anche dopo la loro scarcerazione.
Persino il Reggente di Cancelleria si riteneva giudice ordinario nelle cause d’obbligo camerale. Inoltre, la giurisdizione dell’A.C., insidiata dagli altri giudici romani, era contesa anche dalla Congregazione del Buon Governo[33], che finiva per occuparsi delle obbligazioni camerali nelle cause riguardanti debiti contratti dalle comunità. Insomma, dentro e fuori la città di Roma l’obbligazione camerale sembrava essere in mano a qualsiasi giudice[34].
Per quanto attiene alla documentazione relativa all’Accademia di San Luca, tra i moltissimi atti raccolti nel sito The History of the Accademia di San Luca, c. 1590–1635[35] numerosi sono gli instrumenta dotati di formula di obbligazione camerale rogati da notai capitolini. Come abbiamo visto, i cittadini romani potevano richiedere l’esecuzione delle obbligazioni camerali tanto all’A.C. quanto alla Curia capitolina. Non si può però escludere che parte delle obbligazioni camerali dell’Accademia siano state gestite dal Vicariato, posto che essa, in quanto congregazione e conformemente alle disposizioni tridentine, al suo nascere era stata affidata da Gregorio XIII alla giurisdizione del Vicario[36]. Sappiamo anche che nel 1606 il cardinale vicario Girolamo Pamphili aveva nominato il giurista Guazzino Guazzini come giudice delle cause tra i membri dell’Accademia[37], senza tuttavia fare alcun espresso riferimento alle obbligazioni camerali.
3. L’executio parata delle obbligazioni camerali e la scomunica
Ma in cosa consisteva, in effetti, l’obbligazione in forma Camerae?
L’obbligazione camerale nasceva dall’apposizione in un contratto di una predeterminata serie di clausole, le quali costituivano – nel complesso – una “formula”, capace di assicurare particolari tutele. Tra queste vi era innanzi tutto la celerità dell’esecuzione, ma anche la speciale garanzia di poter accedere – cumulativamente o disgiuntamente – a una esecuzione reale (sui beni), a una esecuzione personale (detenzione in carcere), e persino a una spirituale (scomunica). Il complesso di queste tre forme di esecuzione faceva dell’obbligazione camerale un unicum nell’ambito della più vasta categoria degli strumenti esecutivi di età moderna, nella quale rientrava perché dotata della c.d. executio parata[38].
L’esecuzione parata rendeva i contratti, nei quali era apposta la formula, dei titoli esecutivi stragiudiziali (enforceable titles) particolarmente sicuri per il creditore. Nel caso di mancato adempimento non era necessario l’accertamento del credito attraverso un giudizio di cognizione (un processo civile ordinario), ovvero non occorreva verificare la situazione di fatto esistente tra le parti, che non era considerata controversa. Le possibilità di opporsi all’esecuzione presentando eccezioni o appelli erano poi drasticamente ridotte dall’espressa rinuncia ad avvalersene da parte del debitore.
Nello Stato pontificio l’obbligazione camerale era il vero perno del processo di esecuzione, dava vita alla “prima e più frequente e più privilegiata” procedura, per usare le parole del grande giurista Giovanni Battista De Luca[39].
In linea di massima, ovvero con qualche approssimazione tenuto conto delle modifiche intervenute nel corso del tempo, attraverso la formula camerale il debitore:
- obbligava se stesso e i suoi eredi, ed impegnava ed assoggettava ad ipoteca tutti i beni, mobili e immobili, presenti e futuri, suoi e degli eredi;
- si sottometteva a qualsiasi giurisdizione, e principalmente a quella, specifica, dell’Auditor Camerae;
- acconsentiva preventivamente alla scomunica e all’esecuzione personale, fino alla piena soddisfazione del credito;
- rinunciava ad opporsi in qualsiasi modo all’esecuzione;
- giurava di osservare e non revocare quanto indicato nello strumento.
Gli altri strumenti esecutivi utilizzati nell’età medievale e moderna (come la guarentigia, lo strumento sigillato o confessionato, l’obbligazione penes acta, etc.), che pure sotto diversi aspetti erano molto simili all’obbligazione camerale[40], potevano rivolgere i loro effetti “solo” al patrimonio e alla libertà personale del debitore.
Trasformare i debitori inadempienti in peccatori scomunicati era un’arma aggiuntiva molto potente: significava non solo colpirli nella loro intima dimensione di fede, ma equivaleva a sabotarne la vita di relazione. La scomunica maggiore, infatti, separava il debitore dalla comunione della Chiesa e dei fedeli, che erano tenuti ad evitarlo. Su un soggetto che esercitava, ad es., l’attività mercantile, le conseguenze sul piano sociale e degli scambi commerciali potevano essere gravissime. Secondo lo stylus della Curia non potevano essere scomunicati vescovi, arcivescovi, patriarchi e cardinali, senza espresso mandato del papa.
La scomunica per debiti era prassi piuttosto diffusa in molti paesi europei, almeno fino al XVI secolo[41]. Al di fuori dello Stato Pontificio poteva essere irrogata nel solo ambito della giurisdizione ecclesiastica, ma colpiva i laici con estrema frequenza.
Essa si basava giuridicamente su due presupposti.
Innanzi tutto, sull’uso diffusissimo di confermare contratti e negozi attraverso clausole giurate, ovvero clausole contenenti la promessa dell’esecuzione e l’impegno giurato a non revocare il contratto stesso. In quanto res spiritualis, il giuramento sottraeva la materia contrattuale alla competenza dei giudici civili a vantaggio di quelli ecclesiastici, a prescindere dall’oggetto del contratto[42]. Il fenomeno fu contrastato dai nascenti Stati nazionali nella prima età moderna ma, alla metà del Quattrocento, il celebre giurista del Delfinato Gui Pape poteva affermare che “in omnibus instrumentis obligatoriis adhibetur iuramentum”[43].
Quindi, una volta soggetti alla giurisdizione ecclesiastica, i debitori potevano incorrere in scomuniche come effetto della loro contumacia, intesa come contemptus: ovvero “oltraggio, disprezzo, rifiuto d’obbedienza, ostinazione, presunzione”[44]. Il mancato ottemperamento di una intimazione ad adempiere era appunto considerato un atto di disubbidienza “contumaciale”, e secondo le regole del diritto canonico la contumacia era la causa prima di ogni scomunica[45].
L’indissolubile relazione tra obbligazione camerale e scomunica era inoltre legata ad uno stravolgimento dell’iter ordinario dell’esecuzione, che consentiva di colpire subito il debitore con una scomunica, per poi procedere contro di lui in un secondo momento anche in via reale e/o personale, congiuntamente o disgiuntamente secondo la richiesta del creditore. In altre parole, l’aggressione dei beni del debitore era residuale. L’ordinaria procedura esecutiva, invece, prevedeva che si cominciasse dall’espropriazione forzata dei beni mobili, poi degli immobili, poi dei beni dei fideiussori; infine si sarebbe passati all’esecuzione personale.
Il Concilio di Trento cambiò radicalmente la configurazione dell’obbligazione camerale, modificando questa sua principale caratteristica. Se prima ad essere considerata residuale era l’esecuzione sui beni temporali, i decreti tridentini, nella xxv sessione di riforma, avevano fissato un criterio di moderazione nell’irrogazione della scomunica, precisando per le cause civili che essa potesse intervenire solo in caso di difficile esperibilità dell’esecuzione reale o personale[46]. Dunque, era ora l’irrogazione della scomunica ad essere divenuta residuale rispetto all’esecuzione personale e reale.
Nel 1570 la costituzione Inter illa di Pio V[47] recepì il decreto del Concilio di Trento, e a partire da questa disposizione l’obbligazione camerale entrò in una seconda fase della sua storia, la fase “moderna”.
4. I notai
La grande diffusione della formula camerale nei contratti, e la rapidità della procedura, creava una enorme mole di lavoro che, di fatto, gravava quasi interamente sugli uffici notarili[48]. Essi svolgevano spesso un ruolo di supplenza nei confronti dei giudici, i quali si limitavano in alcuni casi ad apporre firme in bianco su carte che poi i notai trasformavano in provvedimenti giurisdizionali. Specialmente in questi giudizi, diceva Sallustio Tiberi, “notarii debent esse oculi Iudicis”[49].
Era dinanzi ad un notaio che iniziava la procedura in forma Camerae. Nel rogare un contratto di mutuo, o di locazione, o di censo, o comunque relativo ad una obbligazione pecuniaria, il notaio apponeva le clausole tipiche, che consentivano l’executio parata. Il suo lavoro accompagnava poi ogni passaggio della procedura esecutiva.
A differenza di quanto avveniva con gli strumenti guarentigiati, che contenevano in sé l’atto di precetto, nel caso delle obbligazioni camerali al notaio non era formalmente delegata alcuna giurisdizione[50]. I mandati esecutivi erano di competenza del giudice e la legislazione pontificia non prevedeva deroghe a questo principio. La routine intensa e ripetitiva dell’esecuzione delle obbligazioni in forma Camerae, però, non consentiva che ogni provvedimento giurisdizionale necessario a perfezionare le varie fasi della procedura potesse essere effettivamente realizzato dal giudice secondo le formalità richieste.
La maggior parte degli atti erano perciò, di fatto, compiuti dai notai del Tribunale[51]. Solo in casi particolari, nei quali l’intervento dell’autorità giudiziaria era assolutamente indispensabile – come nell’emanazione di decreti definitivi – il requisito della forma scritta ad nullitatem era soddisfatto dalla firma del giudice in calce all’annotazione del notaio, fatta nel suo broliardo, il Liber actorum notariorum.
Con l’andare del tempo, lo stylus del Tribunale relativo all’esecuzione delle obbligazioni camerali si andò ampiamente modificando, e i cambiamenti più significativi finirono per attribuire una sempre maggiore autonomia ai notai attuari (ossia del Tribunale)[52]. Di pari passo con tale autonomia, crebbe anche la fiducia che l’Uditore doveva—di necessità—riporre in loro.
Espressione di questa grande fiducia era il fatto che l’A.C. e i suoi Luogotenenti civili firmassero abitualmente in bianco carte, che solo successivamente venivano trasformate dai notai in provvedimenti giurisdizionali. In concreto erano perciò gli uffici notarili a rilasciare – a seconda delle esigenze – monitori o mandati esecutivi, o addirittura censure ecclesiastiche, senza bisogno di ricorrere nuovamente al giudice.
Laddove possibile, il notaio guidava la procedura integrandola negli elementi mancanti, e le integrazioni divennero nel tempo costanti e conformi ad uno stile.
Ad esempio, inizialmente la comminazione delle censure avveniva attraverso l’apposizione di una formula, vergata di propria mano da uno dei giudici del Tribunale in calce all’obbligazione o all’annotazione del notaio nel suo broliardo. Con l’andar del tempo era però invalso l’uso che i giudici, in un qualsiasi giorno d’udienza, si limitassero a firmare il testo scritto dal notaio nel suo broliardo[53].
Allo stesso modo, la confessione del debito da parte del procuratore—che avrebbe dovuto svolgersi dinanzi ad un giudice dell’A.C.—e la presenza del procuratore al momento della stipula del contratto erano indicate fittiziamente dal notaio come avvenute, ma venivano di fatto eluse per non creare disordine negli uffici già affollati[54].
Erano insomma le esigenze pratiche a determinare in concreto il procedimento, e i notai a indirizzarlo in base ad esse. Le funzioni giurisdizionali del tribunale erano di fatto condivise con i suoi notai attuari, benché ad essi formalmente non attribuite.
5. La procedura prima e dopo il 1570: stylus antiquus e modernus
Come si è detto, nella lunga storia dell’obbligazione camerale una data segna la fine di una certa modalità di impiego della formula e il passaggio ad una nuova: è il 1570, quando la costituzione Inter illa di Pio V recepisce la disposizione del Concilio di Trento relativa alle scomuniche. Nelle cause civili esse dovranno essere irrogate solo in iuris subsidium, ovvero in via residuale, quando non sia possibile procedere ad una esecuzione reale o personale[55].
La procedura di esecuzione dell’obbligazione camerale in uso fino al 1570 circa viene chiamata stylus antiquus. Il passaggio allo stylus modernus avvenne formalmente con la costituzione Inter illa, ma in realtà la transizione non fu brusca perché le innovazioni erano state precedute dal dibattito tra i giuristi su alcune questioni, ed alcune erano già state attuate nella prassi[56]. La nuova forma di obbligazione camerale venne poi perfezionata dalla costituzione Universi agri dominici (1612), nella quale Paolo V raccomandava che nell’esecuzione delle obbligazioni camerali fosse osservato lo stylus hodiernus. Esso si distingueva dalla forma antiqua, ormai superata, per alcune innovazioni, che venivano indicate dal papa: (1) la possibilità di un’unica citazione; (2) l’obbligazione nei confronti degli eredi (3) la mancata costituzione dei procuratori (4) la mancanza della susceptio censurarum[57].
È opportuno sottolineare che i due stili, dopo il 1570, non sono mai coesistiti, ma il più recente ha soppiantato l’antico. Nella seconda metà del Seicento De Luca poteva pertanto scrivere che la formula antiqua era “in totalem oblivionem habita”. Secondo De Luca, la formula moderna dell’obbligazione camerale, essendo caratterizzata da una “maiorem clausularum amplitudinem”, aveva risolto i dubbi interpretativi che la più antica aveva lasciato aperti, ed evitava il sorgerne di nuovi[58]. Soprattutto, essa semplificava la procedura perché aboliva le formalità superflue, che servivano solo ad assecondare strategie dilatorie ed erano pertanto di intralcio ai commerci.
Le moltissime obbligazioni camerali che troviamo nella documentazione notarile relativa all’Accademia di San Luca, e conservata all’Archivio di Stato di Roma, riguardano un periodo successivo al 1570: esse seguono dunque lo stylus modernus. Sono riconoscibili in tal senso perché gli atti, per la maggior parte, fanno riferimento ad obbligazioni in ampliori forma Camerae, espressione che indica l’applicazione dello stile moderno, ed è richiamata la responsabilità degli eredi. Per maggiore chiarezza cercheremo allora di descrivere la procedura esecutiva connessa all’obbligazione in forma Camerae evidenziando le caratteristiche proprie dello stylus modernus, non senza fare qualche accenno a quale fosse la procedura prima della riforma.
a. Lo strumento: repetitio, recognitio ed extensio formulae prima e dopo la riforma
L’obbligazione in forma Camerae poteva essere contenuta sia in uno strumento pubblico che in una scrittura privata. La forma pubblica non era necessaria per la validità del contratto ma consentiva una più celere esecuzione.
Naturalmente, il massimo grado di certezza, e dunque di affidabilità, era dato dallo strumento pubblico rogato da un notaio attuario[59], ed era anche consuetudine degli uffici notarili dell’Auditor Camerae apporre le clausole di obbligazione camerale nella generalità dei contratti che comportavano un’obbligazione pecuniaria, al punto che—anche quando non espressamente indicata—nello Stato pontificio la formula camerale si presumeva apposta. Con poche eccezioni: come nel comune di Bologna, dove non c’era l’uso di obbligarsi in forma Camerae.
Inoltre, se il contratto era stato rogato da un notaio attuario, la clausola, oltre che apposta, si presumeva correttamente stilata. Dunque, non era necessaria alcuna ricognizione dell’atto, e si poteva immediatamente citare il debitore.
Secondo lo stylus antiquus, però, se lo strumento fosse stato rogato da un notaio diverso, doveva poi essere prodotto davanti ad un attuario, che poteva limitarsi ad operarne una repetitio prima di procedere alla citazione oppure, se il primo notaio avesse in qualche modo abbreviato le clausole, come spesso accadeva, o la scrittura fosse stata privata, l’attuario avrebbe dovuto procedere alla cd. extensio della formula, per rendere lo strumento del tutto conforme alla forma di obbligazione camerale in uso. A tal fine il notaio era tenuto a compierne una recognitio, anche attraverso giuramento di testimoni.
L’extensio consisteva nell’inserimento di tutte le clausole generali considerate essenziali nel contratto in forma Camerae (ad eccezione del giuramento), e dalla giurisprudenza rotale era considerata necessaria a pena di nullità[60]. Ad essa seguiva il decretum de extendendo dell’A.C.
L’estensione era molto discussa, fonte di dispute sulle modalità di realizzarla, e occasione di espedienti dilatori per il debitore. De Luca la considerava un esempio di quelle “inutili formalità di cui l’antichità era tanto amica”[61].
Infatti, lo stylus modernus, che prevedeva una procedura più spedita, l’aveva in parte accantonata: chi si fosse obbligato in ampliori forma Camerae (cioè secondo lo stylus moderno) attraverso uno strumento pubblico—anche non rogato dai notai dell’A.C.—non doveva più essere citato per l’extensio della formula. Era sufficiente che avesse acconsentito al mandato esecutivo unica vel sine citatione, e in questo caso veniva citato una sola volta, direttamente ad solvendum. La possibilità di evitare l’estensione non riguardava i contratti stipulati con scrittura privata, ed era esclusa nel caso di modificazione dei soggetti dell’obbligazione (personae mutatae).
b. Le citazioni
Verificato lo strumento, si citava il debitore.
Normalmente, la citazione di un debitore domiciliato in Urbe avveniva personaliter oppure per affixionem cedulae sulla porta di casa: nel primo caso la citazione poteva essere per il giorno stesso (hodie per totam, cioè entro l’ora dell’udienza), nel secondo per il giorno dopo (ad primam).
Se però il debitore non aveva il domicilio in Urbe e risultava absens, allora il creditore, dopo una sommaria ricerca, in città giurava sull’assenza del debitore, e il giuramento costituiva di per sé prova dell’assenza. Era tuttavia necessario, per poter procedere in absentia, che il credito fosse liquido, dunque determinato nel suo ammontare, altrimenti prima del giuramento avrebbe dovuto esser reso tale attraverso testimoni.
In questo caso la citazione poteva avvenire per audientiam contradictarum, se fosse stato periodo di udienze, oppure per affixionem sulla porta della curia dell’Uditore o in altri luoghi soliti, se fosse stato periodo di vacatio. L’audientia contradictarum era una modalità di citazione utilizzata nei riguardi di “omnes contumaces ab Urbe absentes”[62]. Le citazioni venivano lette dal notarius contradictarum in un luogo pubblico nei dies iuridici; nel tempus vacationum le contradictae venivano invece affisse.
Nell’ambito dello stylus antiquus le citazioni del debitore erano molteplici. Nel caso in cui l’obbligazione fosse stata inserita in un atto che richiedeva estensione della formula, si veniva citati ad dicendum contra iura. Passati alla fase esecutiva vera e propria, la citazione del debitore avveniva una prima volta nei modi che abbiamo appena descritto, una seconda volta per la scomunica e il rilascio delle litterae declaratoriae, una terza volta per l’aggravazione, reaggravazione e invocazione del braccio secolare, una quarta per l’avvio dell’esecuzione forzata.
La procedura era portata avanti a ritmo estremamente serrato, tanto che—se il debitore era domiciliato in Urbe e praesens, e senza la concessione di dilazioni—in una quindicina di giorni al massimo si poteva arrivare alla fase di espropriazione forzata. Le attività che si svolgevano nel corso di questo breve periodo erano numerose, persino incalzanti per l’obbligato. Si può dire che, nel complesso, la presenza del debitore fosse richiesta per alcune precise finalità: adempiere, confessare o veder confessato il debito, essere scomunicato.
Chi invece si fosse obbligato secondo lo stylus modernus acconsentendo al mandato esecutivo unica vel sine citatione, veniva citato una sola volta, direttamente ad solvendum. Una volta comparso in giudizio l’obbligato riceveva l’intimazione ad adempiere e, in assenza di eccezioni rilevanti, veniva contestualmente rilasciato il mandato esecutivo. Se invece avesse dato il consenso ad una bina citatio, allora il mandato sarebbe stato rilasciato nella seconda ed ultima udienza.
c. Confessione del debito e scomunica
Lo stylus antiquus si caratterizzava per la confessione del debito e la scomunica. Trascorso il termine previsto dalla prima citazione, la confessione del debito veniva compiuta, su istanza del creditore, da uno dei procuratori indicati nello strumento, per la somma contenuta nello strumento stesso.
Avuta la confessione del debito, su istanza del creditore il giudice dichiarava che l’obbligato sarebbe incorso nella sentenza di scomunica se non avesse adempiuto entro tre giorni (nisi infra tres dies), fatta salva la possibilità di opporre – in quei tre giorni, e non oltre – rilevanti eccezioni, tra le poche concesse all’obbligato in forma Camerae.
Decorsi i tres dies senza l’adempimento – benché il termine potesse essere differito fino a trenta giorni – il giudice, alla presenza del creditore o del suo procuratore, dichiarava scomunicato il debitore se entro la giornata non avesse adempiuto. Trascorsa inutilmente la giornata, venivano emanate le cd. litterae declaratoriae. Le declaratorie non servivano per la comminazione della scomunica (già pronunciata con la formula nisi infra tres dies satisfecerit), ma per la sua pubblicazione e per le conseguenze sociali che essa comportava: come si sa, infatti, lo scomunicato andava evitato dai fedeli.
È il caso di sottolineare che i tres dies indicati dal giudice erano che un simulacro della trina monitio richiesta dal diritto canonico. In questo modo le due fondamenta giuridiche della scomunica—la contumacia e le monitiones—venivano formalmente preservate.
Le lettere declaratorie venivano materialmente redatte da un notaio attuario, consegnate all’attore ed affisse da un cursore del tribunale a Campo de’ Fiori, in modo tale che si sapesse pubblicamente che il debitore era scomunicato. Passati dieci giorni senza che l’adempimento fosse stato effettuato, il debitore veniva citato un’altra volta, per aggravatio, reaggravatio e auxilium brachii saecularis. In sostanza, all’udienza il giudice aggravava le censure invocando l’ausilio del braccio secolare, e rilasciava le “lettere aggravatorie”, che contenevano sia l’ordine di conseguire dal patrimonio del debitore beni per il valore del debito, al fine di venderli all’asta, sia di incarcerare il debitore finché non avesse soddisfatto il debito integralmente.
In forza di queste lettere, si affiggevano in giro per la città cartelloni scritti in lettere maiuscole, alla sommità dei quali – in vilipendio dei debitori – erano disegnate con vari colori immagini “deformes atque indecorae.”[63]
Lo stylus hodiernus non richiedeva più la costituzione dei procuratori ad confitendum debitum. Era una trasformazione significativa della procedura, perché alla confessio in iure del debito era stata riconosciuta sino a quel momento un’importanza decisiva ai fini dell’efficacia dell’obbligazione camerale, della quale costituiva un elemento antichissimo. La costituzione Inter illa aveva invece stabilito che il procuratore potesse essere costituito per la confessione del debito solo se fosse stato nominato dal convenuto anche per la propria difesa, e non avesse accettato l’onere della difesa. La disposizione era stata confermata dalla bolla Universi agri dominici nel 1612. Nello stesso anno, Sigismondo Scaccia attestava che la costituzione del procuratore era ormai scomparsa dalla pratica giudiziaria e, di fatto, a sparire fu anche la confessione giudiziale del debito. Lo stesso Scaccia sosteneva che se, dopo la riforma, se ne fosse ancora trovata traccia negli strumenti dotati di obbligazione camerale, essa sarebbe stata verosimilmente fittizia[64].
d. Esecuzione reale e personale
Dopo la scomunica (secondo lo stylus antiquus), oppure prima o in sua assenza (secondo lo stylus modernus), era possibile procedere contro il debitore in via reale e/o personale, congiuntamente o disgiuntamente secondo la richiesta del creditore. Il debitore aveva facoltà di evitare o far cessare in qualsiasi momento la procedura esecutiva consegnando la somma dovuta, in contanti, agli esecutori.
L’esecuzione personale portava al carcere e, teoricamente, poteva colpire qualsiasi obbligato. Di fatto affliggeva le categorie sociali più indifese, perché i giudici, per prassi, risparmiavano l’arresto a prelati, baroni, uomini illustri e “donne oneste”[65]. La detenzione cessava solo soluto debito, o dopo il deposito di idonea cauzione.
L’esecuzione reale sui beni mobili avveniva attraverso l’apprensione degli stessi dalla casa del debitore (o da altro luogo) ed il loro deposito: quest’ultimo, dopo l’istituzione da parte di Urbano VIII nel 1625, avveniva presso la Depositaria urbana dei pubblici pegni.
Nel caso di immobili, si procedeva al pignoramento attraverso l’accessio ad domum, ed eventualmente ad vineam, dell’obbligato, alla presenza di testimoni, dell’esecutore e del notaio attuario della causa, che ne redigeva verbale.
Compiuto il pignoramento, mobiliare o immobiliare, su istanza del creditore l’esecutando veniva citato per ricevere l’intimazione a consegnare il denaro, a soddisfacimento parziale o totale del credito, con decreto nisi ad primam diem, cioè entro un giorno. Decorso inutilmente il breve termine, veniva emesso nei confronti degli esecutori il mandato di consegna dei pegni ai cursori, per la vendita dei beni all’incanto.
Ricevuti i beni, i cursori li descrivevano in una cedola, e poi provvedevano all’asta.
Una volta che i beni erano stati venduti al miglior offerente, se il ricavato non era sufficiente a soddisfare il creditore, era consuetudine della Curia che si procedesse ad ulteriore esecuzione—sia reale che personale—in forza del primo mandato, fino alla soddisfazione integrale del credito.
e. Le eccezioni e la vulnerazione
La formula dell’obbligazione camerale prevedeva la rinuncia alla presentazione di eccezioni ed appelli.
Tuttavia, era generalmente ammesso che contro l’esecuzione delle obbligazioni camerali si potesse opporre una terna di eccezioni: falsitas, solutio e quietatio. Non erano però tassative, ed altre erano ammesse sia in base alla loro rilevanza sia, soprattutto, a condizione che non ostacolassero o ritardassero l’esecuzione.
Non potevano infatti essere evitate quelle eccezioni che si fondavano sulla incompetentia iudicis, sulla inhabilitas dell’attore (perché ad esempio minore, bandito o scomunicato) o sul suo inadempimento (res non tradita, pretium non solutum), e sulla nullità dello strumento.
In linea generale, secondo dottrina e giurisprudenza, alcune eccezioni potevano essere semplicemente rigettate, altre impedivano la prosecuzione del processo perché la loro ammissibilità era immediatamente evidente dalla lettura dello strumento, o da fatto notorio, o dalla natura della cosa (ad es. res non tradita, res non libere tradita, etc.). Quelle eccezioni che non erano immediatamente accertabili ma richiedevano un’ulteriore indagine, ad esempio per testimoni, potevano essere rigettate per non ritardare l’esecuzione.
Questo criterio generale lasciava comunque spazio ad una casistica di eccezioni ammissibili.
L’esecuzione doveva però essere sempre interrotta in caso di vulneratio, ovvero quando fosse intervenuta una sentenza, o un lodo arbitrale, di assoluzione del debitore. L’obbligazione vulnerata perdeva l’executio parata, e diventava sempre appellabile. L’appello, però, costituiva l’unico rimedio per il creditore, che doveva poi aspettare le tre sentenze conformi.
Tanto i trattatisti quanto la giurisprudenza guardavano con una certa ostilità all’ipotesi che un qualche evento – persino un fatto così importante come l’assoluzione del debitore – potesse ostacolare o interrompere la procedura esecutiva. De Luca non faceva mistero del considerare la sentenza assolutoria un “grave pregiudizio” per il creditore, ed avvertiva i giudici “a non essere lubrici e facili alle sentenze assolutorie”.
f. L’obbligazione nei confronti degli eredi
Ai tempi dello stylus antiquus era dibattuto se l’obbligazione camerale si trasferisse agli eredi[67].
Era incontestato che l’obbligazione si trasferisse integralmente agli eredi del creditore. Rispetto agli eredi del debitore, però, c’erano molti dubbi. Innanzi tutto, perché l’obbligazione camerale consisteva in un impegno giurato, e gli eredi sarebbero incorsi in uno spergiuro per un giuramento che non avevano personalmente prestato, o persino in una scomunica. Ma la questione che sembrava centrale ed ostativa della successione nell’obbligazione era quella del mandato ai procuratori.
La formula camerale, secondo lo stylus antiquus, includeva infatti la costituzione di procuratori, con mandato a confessare il debito in nome e per conto del debitore per la somma indicata nel contratto, e si riteneva che tale mandato dovesse considerarsi revocato con la morte del debitore. Tuttavia, alla metà del Cinquecento la piena Segnatura di Giustizia era giunta alla conclusione, poi recepita dalla prassi, di considerare esecutabili i beni del debitore defunto, poiché il mandato, essendo inserito nel contratto camerale ad alterius commodum, non poteva essere revocato tacitamente alla morte del debitore[68].
Negli anni seguenti, dopo la riforma dell’obbligazione camerale del 1570, la soluzione indicata dalla Segnatura di Giustizia fu rafforzata dal venir meno della costituzione dei procuratori. Dunque la trasmissibilità agli eredi, sulla quale la dottrina era stata esitante fino al 1555, si avviò a diventare una caratteristica tipica dello stylus modernus. Come tale venne indicata nella costituzione Universi agri dominici (1612).
6. Conclusioni: la sicurezza della formula, lo svantaggio del debitore
La grande fortuna dell’obbligazione camerale si basava sul fatto che essa consentiva un’esecuzione molto celere, liberando il creditore non solo dall’attesa della conclusione di un processo ordinario, ossia di accertamento del debito, ma anche da qualsiasi ritardo derivante dalla resistenza che il debitore avrebbe potuto opporre nell’attuazione di una ordinaria procedura di esecuzione.
Era un’esecuzione assolutamente privilegiata, la cui rapidità ed efficienza erano però del tutto a svantaggio di una sola parte, il debitore. Egli giurava di adempiere, esponendosi allo spergiuro e impegnando non solo tutti i propri beni, presenti e futuri, ma anche i beni presenti e futuri dei propri eredi, la propria libertà personale, e correva persino il rischio della scomunica. Si assoggettava alla giurisdizione di qualsiasi giudice ed accettava che il mandato esecutivo contro di lui fosse rilasciato subito, a seguito di una sola citazione. Rinunciava ad ostacolare l’esecuzione non solo con eccezioni o appelli, ma con qualsiasi beneficio previsto a suo favore dalla legge, e—salvo il caso rarissimo di essere stato assolto per sentenza—poteva evitare l’esecuzione solo con l’adempimento.
Nell’assumere un impegno così gravoso, egli non era sempre ben informato delle responsabilità che ne derivavano, perché per consuetudine i notai nei loro strumenti abbreviavano la formula dell’obbligazione camerale, fino a renderla incomprensibile e irriconoscibile per chi già non la conoscesse. Se Antonio Massa, nel Cinquecento, riteneva che l’obbligo camerale fosse noto a tutti, compresi donne e contadini[69], nella realtà – e con l’andare del tempo – il fatto di dare per presupposte informazioni relative alla gravità degli impegni assunti diventò un elemento ulteriormente e pesantemente vessatorio per il debitore. A partire dal Settecento – quando il clima culturale e giuridico nei confronti dell’obbligazione camerale era ormai fortemente cambiato – questo aspetto venne spesso denunciato e lamentato dai giuristi: i notai informavano le parti, e specialmente colui che assumeva gli obblighi in forma Camerae “con la massima circospezione”[70].
Considerato che l’uso notarile di abbreviare fortemente la formula – anche tra i numerosi documenti dell’Accademia di San Luca digitalizzati e trascritti per questo progetto – rende obiettivamente difficile riconoscere le obbligazioni camerali e il loro contenuto, mi sembra utile fornire qualche suggerimento per individuarle.
Quelle che seguono sono brevi indicazioni per riconoscere la formula dell’obbligazione camerale negli strumenti notarili dell’Accademia (e per facilitarne la ricerca nel database del sito The History of the Accademia di San Luca, c. 1590–1635: Documents from the Archivio di Stato di Roma:
- l’incipit della formula è sempre Pro quibus;
- si trova l’espressione in forma Camerae Apostolicae, ma spesso, trattandosi di obbligazioni che riflettono lo stylus modernus (post 1570), la dizione usata è in ampliori forma Camerae: questo dovrebbe comportare, se le parti non hanno convenuto diversamente, che l’obbligazione si trasferirà agli eredi anche ex parte debitoris;
- per questa ragione si fa riferimento ad haeredes e bona;
- la formula è sempre abbreviata cum clausulis solitis etc.;
- sono indicate rinunce (ad appelli ed eccezioni);
- è indicato il consenso all’unica citazione;
- si chiude con il riferimento ad un giuramento.
In altri termini, pur con qualche difformità tra un notaio e l’altro, la formula abbreviata si presenta indicativamente così:
Pro quibus etc. se etc. heredes etc. bona omnia etc. in ampliori forma Camerae Apostolicae cum clausulis solitis etc. citra etc. renuncians etc. obligavit ac mandatum etc. unica etc. et tactis iuravit Super quibus etc.
Nel contenuto, questa abbreviazione corrisponde alla seguente formula dello stylus modernus dell’obbligazione camerale, per la quale si fa normalmente riferimento al testo riportato da Silvestro Zacchia nelle Lucubrationes ad Gallesium de obligatione Camerali, quibus praeter additiones eiusdem Authoris […] accesserunt aliae Lanfranchi Zacchiae I.U.D. (Roma 1647)[71]:
Pro quibus omnibus, et singulis praemissis tenendis, complendis et inviolabiliter observandis idem A. debitor se ipsum, suosque haeredes, ac successores quoscumque, ac bona sua, et suorum quaecunque tam praesentia, et futura tam mobilia quam immobilia, ubilibet existentia iura, actiones, et debitorum nomina in ampliori forma Camerae dicto B. praesenti, et acceptanti, et pro se, suisque haeredibus, et successoribus quibuscunque stipulanti, et recipienti obligavit et hypotecavit, nec non Curiae causarum Camerae Apostolicae eiusque Camerarii, Vicecamerarii, Auditoris, Viceauditoris, Regentis, Locumtenentis, et Commissarii, ac omnium et singularum aliarum Curiarum Ecclesiasticarum, et secularium ubilibet constitutarum iurisdictionibus, coercionibus, compulsionibus, iuribus, rigoribus, stilis, et meris examinibus supposuit, et submisit, per quas curias, et earum quamlibet tam coniunctim, quam divisim, voluit, et expresse consensit se, ac suos haeredes, et successores praedictos posse realiter, ac personaliter cogi, compelli, astringi, excommunicari, aggravari, reaggravari, et ad brachium seculare deponi, arrestari, capi, incarcerari, et detineri uno et eodem tempore, vel diversis temporibus, et per diversorum temporum intervalla usque ad plenariam, et integram praemissorum observationem, ac omnium et singulorum damnorum, expensarum, et interesse praemissorum occasione forsan faciendorum, et substinendorum integram refectionem, et restitutionem, ita tamen quod executio unius Curiae executionem alterius non impediat, nec retardet, non obstante iuris dispositione, quod ubi iudicium incęptum est, ibidem terminari debeat, et quod causarum continentiae non dividantur, et quod quis teneatur in ea actione, quam intentavit usque ad finem litis persisteret, et qualibet alia iuris, et facti exceptione in contrarium facente, non obstante, et quavis alia iuris, seu facti exceptione, quae posset alligari in contrarium facente, non obstante; ita quod una via electa non censeantur ullo modo alteri renunciatum. Insuper renunciavit omni et cuicunque exceptioni doli mali, vis, metus, fraudis, laesionis, et machinationis, non numeratae pecuniae, speique futurę receptionis, et numerationis praesentis contractus, non sic, ut praemittitur facti, celebrati, et initi, et aliter opus, vel minus suisque factum, vel dictum, quam recitatum, et e contra omnibusque aliis, et singulis exceptionibus, cavillationibus, et cautelis, quibus mediantibus contra praemissa, vel aliqua eorum d. A. debitor facere, dicere, venire, ac se tueri quoquomodo posset, et specialiter iure dicente generalem renunciationem, non valere, nisi praecesserit specialis, et expressa.
Renunciavit pariter idem A. debitori omni, et cuicumque appellationi, reclamationi, et recursui contra praemissa quomodolibet interponendis ac praesentis Instrumenti, et contentorum in eo vim, et effectum, ac executionem quomodocumque differentibus, retardantibus, seu impedientibus, nec non omnibus, et singulis legibus, et legum auxiliis, etiam quod essent speciali nota digna, quibus mediantibus se contra praemissa, vel eorum quolibet supra contenta et praemissa defendere, ac tueri, ac per quas praesentis Instrumenti vis, effectus, aut assecutio posset quomodolibet differri, vel retardari. Quinimo appellatione, reclamatione, et recursu huiusmodi, ut supra interponendis, ac introducendis, caeterisque omnibus exceptionibus non obstantibus hoc Instrumento, et omnia in eo contenta, in primis, et ante omnia debitum suum sortiatur effectum, ac debitae executioni penitus demandentur, ita et taliter quod appellatio huiusmodi, alięque exceptiones eidem A. quoad effectum suspensium minime suffragentur me Notaio tamquam publica, et autentica persona pro absentibus, ac omnibus, et singulis quorum interest, intererit, vel in futurum interesse poterit stipulante, et sic ad et super Sancta DEI Evangelia tactis scripturis in mei Notarii manibus sponte iuravit super quibus omnibus, et singulis praemissis peritum fuit a me Notaio unum, vel plura publica confici Instrumenta etc.