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    I notai e l’Accademia di San Luca, 1590-1630

    Laurie Nussdorfer

    Negli anni tra il 1590 e il 1630 Roma era una città popolata da persone—per la maggior parte uomini—in continuo movimento. Per la prima volta dalla tarda antichità, nel 1600 il numero degli abitanti superò la soglia delle 100.000 unità, ma il continuo andirivieni di immigrati e visitatori era tale che un censimento, per natura statico, difficilmente riesce a tradurre  una realtà così dinamica[1]. Sebbene sia  soltanto a partire da questi decenni  in poi durante i quali possiamo iniziare a registrare l’incremento della popolazione, i dati a noi disponibili   indicano come la crescita demografica, già iniziata intorno alla metà del Cinquecento, rallentò solo durante il pontificato Barberini (1623-1644). Tra i migranti gli uomini erano in numero predominante per la particolare natura delle opportunità economiche offerte dalla Roma papale; le possibilità d’impiego riguardavano principalmente i settori dei servizi, dell’edilizia e della burocrazia, che richiamavano una forza lavoro in gran parte maschile. Come è noto, molti di questi individui arrivarono nella città eterna in cerca di un mestiere nei settori dell’arte, e furono centinaia, se non migliaia, a trovarlo[2]. Le ricchezze pubbliche della Chiesa e del papato, cui si associarono le fortune private di cardinali, banchieri e aristocratici, attrassero talenti, abilità e manovalanza da posti lontani come le Fiandre e vicini come le colline della Sabina. Nei primi anni novanta del Cinquecento alla moltitudine di coloro che prendevano la via per Roma si unì, per la seconda volta, il pittore e teorico marchigiano Federico Zuccari, il quale portava con sé l’idea, sperimentata di recente a Firenze, di creare un’associazione di uomini scelti dediti al disegno o esperti di questa disciplina, un’accademia in cui sarebbe fiorita la cultura artistica. Lungo la strada aveva forse a malapena notato che tra i suoi compagni di viaggio ve ne erano alcuni con la penna e il calamaio, strumenti tipici della professione notarile, persone spesso provenienti dalle arroccate cittadine dell’Italia centrale che speravano di trovare lavoro a Roma[3]. Non sappiamo se Zuccari abbia prestato loro maggiore attenzione quando a Roma discusse il suo grande progetto con artisti che fin dagli anni settanta del Cinquecento avevano perseguito un'idea simile, ma sappiamo che i notai gli prestarono attenzione, partecipando sia alla riunione del 7 marzo 1593 che portò alla fondazione di un’accademia, sia agli incontri precedenti e successivi[4]. In effetti, gli studiosi si stanno rendendo conto che gran parte di quel che sappiamo sui primi decenni in cui si tentò l’esperimento di istituire a Roma un’accademia per artisti lo dobbiamo proprio all’attento lavoro dei notai.

    I notai rappresentano un utile punto di accesso alla storia di qualsiasi istituzione, in particolare di quelle romane in un periodo di rapidi cambiamenti come questo, perché ci aiutano a comprendere come la presunta stabilità e immutabilità di determinate strutture sia di fatto fittizia. Nella realtà, le istituzioni raramente agiscono con la chiarezza e la prevedibilità descritte dagli storici, e i documenti che utilizziamo per tracciarne il ritratto raramente sono così trasparenti come sembrano. L’effervescenza, se non la turbolenza organizzativa della Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo era tale che sarebbe fuorviante credere che le sue istituzioni potessero avere una fisionomia stabile e dai netti confini. I notai romani, avendo documentato le riunioni di gruppi molto diversi per forma, dimensioni e aspirazioni, ci hanno lasciato un quadro singolarmente autentico della fragilità, del caos e della mutevolezza delle associazioni createsi in quei decenni.

    Perché all’inizio del Seicento le forme di vita collettiva cittadina erano in continua mutazione? In parte ciò era dovuto all’immigrazione e all’aumento della popolazione, ma un ruolo significativo lo ebbero anche fattori religiosi e politici. Il movimento di riforma del cattolicesimo, sia prima sia dopo il Concilio di Trento (1545-1563), incentivò la fondazione di nuovi sodalizi dediti ad attività caritatevoli e devozionali, molti dei quali concentrarono le proprie energie sulla città di Roma[5]. La riforma diede inoltre rinnovato vigore alle confraternite esistenti—come quella dedicata a San Luca, cui appartenevano i pittori e i lavoratori dell’arte—cosa che spesso si tradusse in nuovi progetti e ambizioni e nella modifica delle procedure amministrative necessarie per perseguirli. Questa continua mutazione degli organi corporativi nel Cinquecento ha lasciato il segno nei tanti esempi di revisione o creazione di nuove regole (capitoli, ordini, institutioni) che gli studiosi trovano nelle biblioteche e negli archivi romani[6]. Chiamati genericamente ma impropriamente statuti—termine che, in senso stretto, dovrebbe essere riservato alle più rare versioni avallate dalle competenti autorità municipali o pontificie—questi documenti testimoniano in tutta la loro varietà il forte coinvolgimento personale dei partecipanti a quelle che erano fra le poche istituzioni della prima età moderna in cui potevano avere voce in capitolo. Per quanto riguarda le corporazioni dei mestieri, i decenni che vanno dal 1550 al 1650 si segnalano come un periodo di nuove fondazioni, di secessioni e aggregazioni, con una febbrile revisione degli ordinamenti, sia manoscritti che a stampa.

    Lo scindersi e il fondersi delle organizzazioni artigiane deve probabilmente qualcosa ai movimenti spirituali delle confraternite, che spesso ne sono state la matrice, ma può anche essere il riflesso di un’astuta strategia politica. Gli stessi pontefici intervennero, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, per trasformare radicalmente molte istituzioni romane consolidate, dalle congregazioni cardinalizie al tribunale municipale con i suoi notai. L’accentramento del controllo nelle mani dello Stato (cioè del governo pontificio) era forse il loro obiettivo, ma i metodi utilizzati ebbero spesso l’effetto opposto. Quando i papi crearono associazioni privilegiate in modo da poterne sfruttare la collaborazione nelle politiche dello Stato, involontariamente pubblicizzarono i vantaggi della formazione di nuovi gruppi. Gli artigiani e i commercianti di Roma non tardarono a capirlo. La mutevolezza istituzionale fu favorita da un altro paradosso. Nonostante l’autorità ecclesiastica e statale fosse concentrata nelle mani dei pontefici, a Roma il potere politico era distribuito tra i membri dell’élite più diffusamente che in una normale capitale dinastica. I settanta membri del collegio cardinalizio—una delle peculiarità di questo regno ecclesiastico—assumevano una funzione di centri di influenza e di mecenatismo tale da fare invidia  ai membri di una corte reale[7]. Laddove si moltiplicavano i mecenati, le organizzazioni in concorrenza tra loro prosperavano.

    Per quanto questo quadro enfatizzi la vitalità degli sforzi volti a creare nuove forme di vita collettiva a Roma, gli stessi agenti e attori devono aver spesso provato frustrazione e delusione, poiché questa fu una lotta che vide fallire molti aspiranti. Lo spettro delle varie organizzazioni corporative spaziava dalle riunioni occasionali di pochi con intenti simili ai tradizionali enti privilegiati che avevano i propri tribunali sul colle Capitolino, ma poche erano soddisfatte del posto che occupavano. Anche in una città dinamica come questa le risorse— denaro, influenza, prestigio, mecenatismo— non erano sufficienti per tutti quanti. Inoltre, l’arbitrarietà del potere poteva frapporre battute d’arresto. Come devono essersi sentiti i membri della confraternita dei pittori quando, dopo decenni di risparmi per ricostruire la loro chiesa sull'Esquilino, nel 1588 papa Sisto V gliela tolse e li relegò nella fatiscente chiesa di Santa Martina vicino al Foro[8]? Sappiamo dai protocolli notarili che alcuni gruppi provarono a rendersi indipendenti, come quello degli scultori nel 1608, ma fu loro impedito di farlo[9]. Le stesse fonti mostrano come molte associazioni professionali fossero evanescenti e impossibilitati a salire abbastanza in alto nella gerarchia istituzionale da riuscire ad acquisire beni e un luogo di ritrovo, tanto meno un riconoscimento formale in statuti ufficiali[10]. Creare un’istituzione a Roma tra il 1590 e il 1630 comportava un processo scandito da obiettivi ben definiti, ma rischioso di risultati incerti e disomogenei. Un procedimento carico di conflitti, che non progrediva con ordine e con un ritmo regolare e prevedibile. Una volta messo in moto, poteva altrettanto facilmente arrestarsi, momentaneamente o per sempre.

    Come emerge dai documenti notarili, le vicende dei primi anni dell’Accademia di San Luca,  si conformano nei loro tratti salienti a questo schema generale. I notai davano al loro cliente molteplici nomi, che spesso si sovrapponevano (universitas, collegio, congregatio, societas, accademia), probabilmente perché non era affatto chiaro quale fosse l’effettiva identità del gruppo. I tentativi di scrivere e riscrivere le regole dell’organizzazione ci hanno lasciato quattro o forse cinque serie di cosiddetti statuti in meno di quarant'anni. Nei documenti, mesi di incontri frenetici si alternano ad anni di stallo istituzionale.

    Ciò nonostante,  i notai mostrano anche come l’Accademia di San Luca si distinguesse per la sua notevole ascesa nel rango istituzionale. Nei suoi primi quattro decenni di vita l’Accademia riuscì a compiere una scalata sociale senza pari, liberandosi dell’umile condizione del lavoro manuale e forgiando un’immagine di signorile competenza. Ancora più significativo il fatto che l’accademia riuscì a staccarsi dalle strutture politiche che immobilizzavano le organizzazioni artigiane e a raggiungere la libertà che avevano quelle impegnate in attività nobili e liberali. Prima del 1570 i pittori erano soggetti, come gli scalpellini e tutti gli altri artigiani, alla giurisdizione della municipalità, cioè del Senato e Popolo Romano, e avevano i Conservatori come loro giudici[11]. Nel 1577 papa Gregorio XIII, riconoscendo il delicato ruolo teologico che rivestivano in qualità di artefici di immagini sacre, li trasferì sotto la giurisdizione del cardinale vicario[12]. Nel 1624 cercarono di liberarsi dal tribunale del vicario e di ottenere il privilegio di una relativa autonomia sotto un proprio cardinale protettore[13]. Una tale libertà esigeva un rapporto di assiduo clientelismo con i detentori del potere e questo fu particolarmente vero dopo il 1627, quando divenne protettore dell’accademia il cardinale Francesco Barberini, nipote del papa; niente di meno che l’apice del prestigio nel contesto romano. Nella storia delle istituzioni cittadine, dunque, i primi anni dell’Accademia di San Luca costituiscono un capitolo importante.

    La tradizione notarile

    Intorno al 1970 due storici dell’arte, muovendosi su binari paralleli, gettarono nuova luce sui primi anni dell’Accademia di San Luca scoprendo che, tra le migliaia di volumi di contratti autenticati (chiamati protocolli) conservati presso l’Archivio di Stato, vi erano i verbali degli incontri dei sodalizi di artisti, tra cui anche quelli dell’accademia[14]. Fino a una ventina di anni fa non è stato intrapreso alcun lavoro sistematico di ricerca che portasse alla luce tutte queste fonti, che sono state raccolte e rese accessibili soltanto con lo sviluppo del sito “The History of the Accademia di San Luca, c. 1590–1635: Documents from the Archivio di Stato di Roma”[15]. In un saggio del 1972 sul ruolo di Simon Vouet come guida dell’accademia, Noelle de La Blanchardière si chiedeva come mai i verbali delle riunioni fossero contenuti nei protocolli notarili e rifletteva su quale potesse essere il rapporto tra i notai e l’accademia[16]. Gli storici hanno rivolto la loro attenzione anche ai servizi prestati dai notai per le organizzazioni artigiane, scoprendo che le tracce notarili potrebbero essere l’unica testimonianza lasciata da parti sostanziali delle classi lavoratrici nella Roma della prima età moderna[17]. Siamo ora in una posizione migliore per rispondere alle domande di La Blanchardière e per far luce sulla natura di questi documenti indispensabili per ricostruire i primi anni dell’accademia.

    Nell’Europa dell’alto Medioevo era consuetudine riunirsi per deliberare su questioni che riguardavano la comunità. Nelle istituzioni ecclesiastiche e nei nascenti comuni dell’Italia medievale si affermò la pratica di chiedere a un notaio di registrare i nomi dei presenti ad un’adunanza e di compilare un resoconto sintetico delle decisioni prese[18]. Nella sua qualità professionale di portatore di pubblica fides, il notaio rappresentava il volto pubblico dell’autorità e conferiva agli atti che sigillava o firmava un valore probatorio specifico e quantificabile. Per quanto i giuristi medievali potessero cavillare sulla quantità di prove addotte dal notaio, era generalmente accettato che i suoi scritti avessero il valore equivalente a quello di due o tre testimoni, che era più o meno lo standard più elevato che chiunque potesse ottenere senza altro aiuto[19]. Né i giuristi né i manuali notarili dicono nulla sui verbali delle riunioni[20], anche se i manuali forniscono modelli per molti tipi di instrumenta (come venivano chiamati i contratti) di cui clienti come l’Accademia di San Luca avrebbero potuto necessitare, quali ricevute, obbligazioni o atti di presa di possesso di proprietà. Pur non fornendo alcuna indicazione, quindi, sulla forma che avrebbero dovuto assumere i verbali delle riunioni, i manuali ne recepivano la pratica fornendo esempi di procure con cui gli organi societari stabilivano le deleghe[21]. In testi di questo genere era di fondamentale importanza che fossero nominati tutti coloro per i quali l’agente era autorizzato a operare, e alla base di questa consuetudine c’era indubbiamente il principio giuridico secondo cui il consenso è personale e specifico. I notai registravano le decisioni che i presenti si impegnavano a mettere in pratica. Poiché queste risoluzioni avevano spesso ripercussioni finanziarie, era essenziale formalizzarne gli obblighi e, dato che spesso era opportuno vincolare il gruppo per imporre una politica comune, si comprende perché fosse prassi comune avere un notaio presente alle riunioni[22]. Per la stessa ragione, era ovviamente improbabile che incontri come conferenze e lezioni che non avevano alcuna implicazione organizzativa o fini finanziari fossero descritti nei protocolli del notaio.

    Qualunque sia la sua origine, la consuetudine di servirsi dei notai per documentare le riunioni deve essersi ampiamente diffusa tra le città italiane nel tardo Medioevo. Per quanto riguarda Roma, l’assenza di fonti notarili precedenti la metà del 1300 e le vaste perdite di quelle successive rende confuso il quadro, ma tale pratica è testimoniata dal 1421 negli statuti delle corporazioni della lana[23]. Presumibilmente quindi, i pittori che nel 1478 formularono gli statuti per la loro confraternita conoscevano la pratica ed è plausibile che i loro discendenti cinquecenteschi pagassero i notai non solo per gli atti, ma anche per il loro lavoro in qualità di scrivani della corporazione[24]. Per gli studiosi il problema nasce non tanto dal fatto che non si capiscano le motivazioni della partecipazione dei notai alle riunioni di una collettività, quanto dalla difficoltà, perlomeno a Roma, nel reperire questo genere di documenti prima degli anni ottanta del Cinquecento.

    I nuovi notai capitolini del 1586 e i loro verbali

    Per ironia della sorte, è a Sisto V, il papa che nel 1588 aveva costretto l’associazione dei pittori ad abbandonare la sede dell’Esquilino, che dobbiamo la sopravvivenza sistematica della loro attività notarile e quindi la nuova visione delle origini dell’accademia. Nel 1586 il papa intervenne radicalmente sul funzionamento della professione notarile, che a Roma, diversamente dalla maggior parte delle città italiane, era duplice. I notai civici, o capitolini, provvedevano alle esigenze dei cittadini e preparavano atti giudiziari per il tribunale municipale situato nel Palazzo del Senatore. I notai curiali, molti dei quali stranieri, lavoravano invece negli uffici e nei tribunali pontifici che si occupavano delle esigenze degli ecclesiastici. Nella pratica, questa divisione non era così netta per i clienti  e vi furono laici che si servirono di notai curiali e chierici che erano clienti abituali di quelli capitolini, ma i due gruppi di notai erano effettivamente distinti perché il tribunale laico e quello clericale seguivano procedure legali diverse[25]. Sisto V limitò a trenta il numero precedentemente illimitato dei notai capitolini e per la prima volta mise in vendita i loro uffici, avviando così il processo di trasformazione della loro professione da attività libera e organizzata in modo molto vago a ufficio facente parte di una corporazione chiusa di funzionari venali[26]. Quindici degli uffici notarili di nuova creazione fornivano servizi giudiziari a uno dei due giudici civili (collaterali) del tribunale del Senatore, quindici  all’altro. Nel secolo precedente i papi avevano reso venali tutti i notai curiali, così ora la possibilità di ottenere la proprietà degli uffici notarili divenne la norma. Tuttavia, in venticinque anni, i papi fecero un’unica concessione ai notai capitolini: a differenza dei notai curiali nel 1612 Paolo V assicurò loro il diritto di lasciare in eredità o vendere il proprio ufficio come una qualsiasi altra forma di proprietà[27]. Mentre gli effettivi titolari dell’ufficio dovevano essere notai riconosciuti da funzionari civici e ammessi nel nuovo collegio del tribunale capitolino (notarii curiae capitolii), chiunque poteva acquistare l’ufficio, o per intero o in parte, e disporne liberamente.

    Tra il 1583 e il 1634, le varie associazioni di pittori, tra cui corporazione, confraternita e accademia, nonché la confraternita degli scalpellini, in cui si trovavano intrappolati gli scultori, si avvalsero dei notai capitolini per provvedere ai loro obblighi formali e registrare pagamenti, quietanze, trasferimenti di proprietà, inventari e, soprattutto, contenziosi. In questi anni lavorarono per l’accademia sette notai: Ottaviano, Marco Aurelio e Alessandro Saravezzi, Giovanni Antonio Moschenio, Erasto Spannocchia, Lorenzo Tigrino e Tommaso Salvatore. Siamo a conoscenza dei loro nomi e possiamo scoprire i loro clienti grazie all’imposizione della venalità ai notai capitolini voluta da Sisto V e all’insistenza di Paolo V sulle nuove pratiche archivistiche dei documenti notarili. Il periodo che va dal 1586 al 1612 apportò cambiamenti rivoluzionari nelle procedure dei notai romani e non è un caso che l’Accademia di San Luca emerga dall’oscurità proprio in questo arco di tempo.

    Il suo signum, il logo unico che i notai romani usavano per bollare la prima pagina dei loro protocolli e le copie pubbliche dei loro atti, identificava il romano Ottaviano Saravezzi come notaio capitolino ancor prima dell’intervento di Sisto V del 1586[28]. Saravezzi aveva lavorato per falegnami e muratori nei primi anni ottanta del Cinquecento ed era addirittura entrato nella confraternita dei falegnami nel 1584, anno in cui emise anche una ricevuta per un acquisto di legname da parte della corporazione dei pittori (universitas)[29]. Per i successivi dieci anni, e poi ancora dal 1600 al 1607, Saravezzi continuò a produrre atti sia per la corporazione sia per la confraternita dei pittori e, ovviamente, verbalizzò la riunione del 7 marzo 1593, in cui fu costituita la loro accademia. Mentre nel 1586 decine di notai attivi nell’ambito del tribunale capitolino persero il loro status professionale, la nuova politica del papa consentì a Saravezzi di acquistare per 500 scudi lo studio notarile in cui aveva sempre esercitato, trasformando in un certo qual modo la sua attività in una forma di proprietà[30]. La proprietà non consisteva nello spazio fisico nel rione Pigna dove lo trovavano i suoi clienti, ma piuttosto nei volumi dei protocolli contenenti i loro contratti e testamenti e negli atti delle loro controversie. Gli studiosi a volte trascurano i profitti che i notai ricavavano dallo svolgimento delle cause perché hanno lasciato tracce molto scarse rispetto agli atti commerciali presenti nei protocolli, ma Sisto V si aspettava che proprio le cause sarebbero state il richiamo che li avrebbe indotti ad acquistare i loro uffici. Ottaviano Saravezzi era ora diventato uno dei quindici notai capitolini che producevano e depositavano atti di controversie presso il secondo collaterale, uno dei quattro giudici del tribunale del Senatore. Ogni mese lui e gli altri ventinove professionisti del collegio dei notai del tribunale capitolino mettevano in comune una percentuale degli introiti derivanti dalla loro attività giudiziaria[31]. Pur non rientrando nella fascia più alta dei compensi, i guadagni di Saravezzi dimostrano che i clienti ricorrevano a lui anche per gli atti giudiziari oltre che per i contratti[32]. Come spiega Antonia Fiori nell’articolo “L’obbligazione camerale nei documenti dell’Accademia di San Luca” i notai erano il cuore pulsante del sistema giudiziario. Tutte le azioni legali iniziavano con la comparizione davanti ad un notaio ed essi operavano con notevole autonomia, dal momento che i magistrati si affidavano a loro per compilare citazioni e ingiunzioni cui i giudici avevano già apposto le loro firme.

    La venalità ebbe un impatto immediato, oltre che a lungo termine, su Saravezzi. Nel 1584 gli atti da lui prodotti per i suoi clienti nel corso di un anno riempivano un volume rilegato; sette anni dopo ne occupavano tre. La contrazione del numero dei notai cittadini comportò maggiori affari per Saravezzi. Inoltre, poiché gli atti che rogava per i suoi clienti costituivano ormai un investimento consistente, aveva un forte incentivo a conservarli con cura. Gli inventari dei protocolli in possesso dei trenta notai capitolini documentano un cambiamento epocale negli anni ottanta del Cinquecento, con serie pressoché complete per la maggior parte degli uffici per i successivi tre secoli. Possiamo farci un’idea dello stato in cui erano conservati gli atti dei clienti prima della venalità guardando i volumi sparsi risalenti a prima degli anni ottanta, che sopravvivono in alcuni dei trenta uffici e che spesso consistono in un miscuglio di atti disordinati rogati da notai diversi[33]. Ancora più avvilente è la raccolta di protocolli denominata Notai Capitolini, custodita nell’Archivio di Stato di Roma, che rappresentò in effetti un tentativo, intrapreso a partire dagli anni sessanta del secolo, di arginare la perdita di volumi che si verificava ogniqualvolta un notaio moriva e la famiglia ereditava il suo archivio segreto di taccuini dai quali aveva tratto il sostentamento. Questa serie, che contiene la maggior parte di ciò che è sopravvissuto in termini di protocolli prodotti a Roma prima del 1586, è in gran parte costituita da ciò che le autorità riuscirono a sottrarre agli eredi dopo la morte di un notaio. L’eccessiva libertà della professione notarile a Roma prima di Sisto V spiega perché sia stato così difficile tracciare l’attività delle associazioni di artisti nei decenni precedenti.

    Un secondo effetto della venalità, che si manifestò gradualmente a partire dagli anni novanta, fu l’aumento del numero di impiegati del notaio. I documenti che troviamo nei protocolli raramente sono di mano di Ottaviano Saravezzi[34]. Un titolare poteva impiegare uno o due giovani, che verso il 1620 potevano arrivare a quattro o cinque, che si occupassero di gran parte del lavoro di scrittura dell’ufficio, alcuni autorizzati ad agire come notai e altri come semplici scrivani[35]. L’ufficio aveva una struttura gerarchica, con a capo il padrone[36]. I sostituti erano impiegati che avevano la qualifica ufficiale di notaio e piena autorità per certificare contratti (atti o strumenti finanziari) e intraprendere attività giudiziarie, come l’assunzione di testimonianze o la redazione di citazioni legali. I giovani erano gli impiegati, che trascrivevano le bozze delle transazioni trasformandole in testi compiuti da conservare nei protocolli; lavoravano da troppo poco tempo per avere i requisiti per ottenere lo status di sostituto oppure per qualche motivo non avevano cercato di ottenerlo. I giovani preparavano anche gli indici  da inserire nei protocolli prima che uscissero per la legatura, seguendo la prassi dell’ufficio o la propria inclinazione nel determinare il nome da dare ai clienti. Fu lo stesso Saravezzi a partecipare all’importante incontro del 7 marzo 1593, ma già dal 1620 circa era molto più comune che fossero i sostituti a documentare i raduni dell’accademia. Sebbene di solito ci fosse un rapido avvicendamento del personale, alcuni dipendenti rimanevano in un determinato ufficio per anni, anche quando cambiava il titolare. Joseph Palmuctius, ad esempio, che lavorò nell’ufficio 15 dal 1621 al 1627, coprì il mandato di tre notai capitolini, Spannocchia, Tigrino e Salvatore. In quel periodo movimentato, il suo nome compare frequentemente come cancelliere delle adunanze dell’accademia[37].

    L’aumento dei dipendenti rappresentava l’incremento dell’attività dei notai sotto l’impatto della venalità, ma rifletteva anche l’intensificarsi della regolamentazione governativa in relazione agli atti notarili. Dalla metà del Quattrocento in poi, i notai capitolini dovevano rilegare annualmente i loro atti e apporre il proprio nome sulla copertina, ma tra il 1580 e il 1612 le regole per la scrittura notarile si fecero molto più rigide. Nuove leggi municipali e pontificie esigevano che le trascrizioni complete fossero effettuate entro un mese (1580)[38], che i volumi notarili fossero rilegati ogni tre mesi (1612), che all’inizio di ogni volume fosse inserito un indice alfabetico con i nomi dei clienti e il numero di foglio di ciascun atto (1612) e che i sostituti apponessero i loro nomi in calce agli atti che avevano rogato (1612)[39]. La maggior parte di queste misure aveva come obiettivo primario la protezione dell’integrità dei documenti da possibili manomissioni, ma ebbero l’effetto secondario di rendere più facile il tenerne traccia.

    L’Accademia di San Luca e i suoi notai

    Un controllo più rigoroso delle pratiche di scrittura comportò un maggior lavoro e quindi un numero più alto di scrivani, generalizzò inoltre l’uso dell’indice nei protocolli notarili romani, cosa che ha reso più semplice il compito di trovare gli atti e le riunioni di associazioni di artisti come l’Accademia di San Luca. Tuttavia, il rigore delle regole statali non si estendeva agli usi linguistici e, come abbiamo visto, spesso toccava ai dipendenti subordinati decidere quale nome dare a un cliente societario negli atti notarili. Confraternita (societas) e corporazione (universitas) erano termini familiari e convenzionali, ma come chiamare modalità di associazione inedite o nuove formazioni? L’indice di Ottaviano Saravezzi per il primo volume del 1593 elenca la riunione del 7 marzo 1593 come una congregatio (“congregatio pictorum”), cosa che, nel senso generale del termine di assemblea, corrispondeva certamente alla realtà[40]. Il notaio e i suoi impiegati preferivano un approccio non discriminate, optando per l’utilizzo di più titoli contemporaneamente, e di conseguenza li vediamo spesso accoppiare “collegio et universitas” (1589), “collegio et societas” (1600), o “collegio et accademia” dei pittori (1626)[41]: un’inclusività che probabilmente denota un significato più profondo. Generalmente, membri dissidenti o scontenti di un gruppo erano soliti rivolgersi ad un notaio differente quando determinati ad intraprendere una nuova strada. I promotori dell’iniziativa che portò nell’assemblea del marzo 1593 continuarono invece ad  avvalersi dei servizi del notaio Saravezzi, lo stesso che da alcuni anni lavorava per la corporazione e per la confraternita dei pittori. Questa continuità implica la volontà dei fondatori dell'Accademia di Roma nel 1593 di attuare una riforma  dall’interno piuttosto che un desiderio di scissione volto alla formazione di una organizzazione  ex novo per gli artisti[42].

    Per più di vent'anni la corporazione, la confraternita e l’accademia dei pittori si servirono dell’ufficio 11 di Saravezzi per riunioni, atti commerciali e controversie[43]. Quando dal 1594 al 1600 Ottaviano scomparve misteriosamente dal collegio dei notai capitolini, gli artisti assunsero Marco Aurelio Saravezzi, e quando Ottaviano tornò nel 1600 rimasero con lui e con il suo successore, Alessandro Saravezzi, fino al 1609. Ai notai piaceva avere clienti istituzionali e soprattutto essere formalmente incaricati di assumere la funzione di segretario di un’associazione. Nell’epoca della venalità, tali cariche accrescevano il valore dell’ufficio. I notai che erano stati nominati segretari di un gruppo societario ricevevano spesso un acconto annuo e avevano quindi un reddito stabile garantito. Inoltre, da tali incarichi potevano scaturire affari supplementari quando i membri si recavano per le proprie esigenze personali dallo stesso notaio che avevano conosciuto nelle adunanze delle confraternite o nel tribunale della corporazione. La corporazione dei falegnami lo esigeva addirittura dai suoi membri, come forma di compensazione per il proprio notaio[44]. Alcune istituzioni, per esempio l’ospedale del Santissimo Salvatore di Roma, offrivano un mercato così vincolante riguardo la redazione di documenti da vendere il diritto di esserne il segretario al miglior offerente[45]. Sebbene i numerosi statuti revisionati dell’Accademia di San Luca non citino il notaio come segretario, Erasto Spannocchia si identificava come tale[46]. Nel 1623 Spannocchia patteggiò con la “confraternita o Accademia” degli artisti una provvigione annua di 3 scudi[47]. Non ci sono dubbi che ci fosse un rapporto duraturo tra le varie associazioni di pittori e alcuni particolari uffici notarili capitolini, questa infatti era la norma a Roma. Era logico che un’istituzione si affidasse a un solo ufficio, soprattutto quando la pratica comune era di citare gli atti con data e protocollo del notaio piuttosto che pagare per avere una copia personale[48].

    A dispetto del loro lungo legame con l’ufficio 11 di via del Gesù, nel 1609 gli artisti passarono all’ufficio 15, situato a poca distanza, subito a est di piazza Sant’Eustachio, presso il quale mantennero la loro attività per i successivi venticinque anni. La morte di Ottaviano Saravezzi, che si presume sia avvenuta qualche tempo dopo il 1607, potrebbe non essere l’unica spiegazione per questo spostamento, visto che alla fine degli anni novanta del secolo precedente, quando il titolare era Marco Aurelio Saravezzi, i pittori avevano continuato ad affidarsi al suo studio. Oltretutto, nell’autunno 1624 non mostrarono alcuna reazione alla morte del loro segretario Spannocchia, in un periodo molto attivo di riunioni e decisioni, e rimasero fedeli all’ufficio 15 quando tre anni dopo passò per un altro cambio di padrone. Come spiegare l’improvviso passaggio a un nuovo notaio nel 1609?

    Questo gesto sembra segnare un cambiamento di rotta rispetto alla pratica in base alla quale i ribelli si recavano da un notaio diverso quando avevano rimostranze da fare. I dettagli sono confusi, come è spesso il caso nella storia dei primi anni dell’accademia, ma ci portano a credere che il mandato di Gaspare Celio come principe (direttore) dell’accademia nel 1609 abbia rappresentato il punto di rottura. Celio fu al centro di un intenso conflitto all’interno dell’associazione degli artisti, come chiarisce una ben nota supplica (non datata) al papa da parte della corporazione dei pittori[49]. La petizione chiese al pontefice di ordinare al giudice competente per i pittori, Guazzini de Guazzinis del tribunale del cardinale vicario, di punire Gaspare Celio. I pittori accusavano Celio di aver fatto irruzione nell’archivio della confraternita di San Luca e di averne sottratto i documenti. Insinuavano che lui fosse un principe illegittimo, e lo accusavano inoltre di creare nuove regole (capitoli) “contro la libertà e il bene pubblico” e di affiggerle pubblicamente senza il consenso della collettività. Anche se mancano ulteriori dettagli su questa presunta campagna di manifesti avviata da Celio, all’inizio del 1609 il principe si assunse con orgoglio la responsabilità di stampare gli statuti dell’accademia del 1607, piuttosto autoritari. Nell’ultima pagina della prima edizione degli statuti dell’accademia, scrisse di proprio pugno: “Io Gasparo Celio, ora principe dell’Illustrissima Accademia de’ Pittori di Roma, feci stampare il presente volume a richiesta di tutta l’Illustrissima Accademia, e lo confermo di mia mano oggi 27 gennaio 1609”[50]. Quel che accadde mette in dubbio il fatto che “tutta” l’accademia avesse davvero avanzato una tale richiesta.

    Pochi mesi dopo, il 12 maggio 1609 quattro membri della “congregazione generale” di San Luca si presentarono nell’ufficio 11 di Alessandro Saravezzi per nominare un avvocato, Severo Particelli, che si occupasse della controversia[51]. Il 3 giugno il loro camerlengo fece un pagamento “a nome dell’Accademia e congregatio” a tale Giuseppe Cidonio per rappresentarli davanti al giudice Guazzini de Guazzinis[52]. Questo documento del 3 giugno 1609 è l'ultima traccia dei pittori nell’ufficio notarile 11. La successiva transazione dell’accademia che riporti una data, una obbligazione per una stima di routine del 23 luglio 1609, si trova presso l’ufficio 15 di Giovanni Antonio Moschenio, così come i successivi atti, azioni legali e riunioni[53]. Poiché il romano Moschenio era il notaio personale di Celio, sembra probabile che quest’ultimo, vendendo i pittori tutti uniti contro di lui, ritenesse che l’unico modo per mantenere il potere fosse spostare l’attività dell’accademia presso un notaio a lui fedele[54]. Moschenio si dimostrò però appetibile anche per gli altri soci e conquistò così pienamente la loro fiducia che per sei anni fu anche il loro tesoriere (camerlengo), caso rarissimo nei rapporti notarili con i clienti istituzionali[55]. Moschenio non fu l’unico tra i protagonisti di questa vicenda a sopravvivere all’eclisse di Celio dopo il 1612. Colui che consegnò al papa la petizione contro Celio, Agabito Visconti—membro documentato della confraternita dei pittori dal 1595—era ancora profondamente coinvolto nell’incontro dell’8 gennaio 1619, quando fu scelto come uno dei due rappresentanti della confraternita incaricati di riscrivere gli statuti del 1617[56].

    Ormai era subentrato nell’ufficio 15 il notaio capitolino Erasto Spannocchia di San Polo in Sabina. Il suo nome compare per la prima volta nel gennaio 1618 in un documento riguardante l’affitto degli edifici attigui alla chiesa dei pittori; morì nell’estate o all’inizio dell’autunno del 1624. Sotto Spannocchia, o forse più tardi, i verbali delle adunanze per il periodo 1618-1621 non furono rilegati nei protocolli ma raccolti in un volume a parte, ora nell’archivio dell’Accademia di San Luca, secondo una prassi che si riscontra sporadicamente presso le altre corporazioni romane[57]. L’ufficio di Spannocchia doveva essere ben gestito, perché gli strenui contrasti sulla forma e sulla guida dell’accademia che segnarono il 1624, anno in cui Antiveduto Gramatica fu forzatamente sostituito come principe da Simon Vouet, continuarono a essere ininterrottamente registrati da uno staff che aveva perso il proprio padrone[58]. Il successore di Spannocchia fu per breve tempo Lorenzo Tigrino, documentato per la prima volta al lavoro per i pittori nel giugno 1625[59]. Nel 1627 Tommaso Salvatore da Spoleto, che nei successivi vent'anni fece del n. 15 uno degli uffici più attivi a Roma, firmava documenti come sostituto di Tigrino[60].

    Conclusioni

    I notai che lavorarono per le associazioni dei pittori variamente denominate negli anni che vanno dal 1590 al 1630 depositarono nei loro protocolli gli atti e i verbali delle assemblee da loro prodotti, con poche eccezioni. Come abbiamo visto, questi anni furono segnati da una trasformazione nel modo in cui venivano trattati e valorizzati i protocolli notarili, oggetto di una nuova e scrupolosa attenzione da parte dello Stato e di possibili investitori. In questi decenni a Roma sorsero frequentemente tensioni e conflitti all’interno della comunità degli artisti e dei lavoratori dell’arte, che spesso ebbero come oggetto i documenti più importanti per le rispettive organizzazioni, siano esse  universitas, collegio, congregatio, societas, o accademia. A parte le numerose revisioni, in gran parte pacifiche, delle regole di funzionamento dell’accademia, non mancarono gli assalti all’archivio di San Luca. Anche l’inventariazione ossessiva del contenuto degli armadi nelle stanze dell’accademia tradisce una certa ansia rispetto al suo controllo. In un contesto di tali appassionate vicende, i notai dell’accademia dovevano probabilmente fornire il proprio importante contributo rimanendo sullo sfondo: essere presenti, testimoniare, verbalizzare, trascrivere, copiare, archiviare e rilegare. In una città caratterizzata da un grande movimento di persone, anche il gruppo dei notai era necessariamente in continua evoluzione: comparivano e scomparivano con efficiente agilità. Evitando di comparire in prima fila, i notai prestavano attenzione e poi si eclissavano. Sui loro scaffali si accumulavano silenziosamente i protocolli che segnavano il loro successo come funzionari venali. Fortunatamente nessuno li notò e la loro testimonianza riguardo ai primi anni dell’accademia si sarebbe conservata al sicuro per i successivi cinque secoli.

    Note

    Questo testo è una versione rivista e aggiornata di un saggio dallo stesso nome, pubblicato originariamente nel 2009 in The Accademia Seminars: The Accademia di San Luca in Roma, c. 1590–1635, a cura di Peter M. Lukehart.

    Il lavoro per questo studio è stato sostenuto in parte da una sovvenzione elargita da The Colonel Return Jonathan Meigs First (1740–1823) Fund, creato con i fondi lasciati da Dorothy Mix Meigs e Fielding Pope Meigs Jr. di Rosemont, in Pennsylvania, in memoria di questo soldato della rivoluzione che dal 1740 al 1787 visse a Middletown, nel Connecticut.

    Sono molto grata a Nicholas Adams, Eleonora Canepari, Patrizia Cavazzini e Peter M. Lukehart per il loro aiuto.

    Abbreviazioni

    AASL: Archivio Storico dell’Accademia di San Luca
    ASR: Archivio di Stato di Roma
    CNC: Collegio dei Notai Capitolini
    TNC: Trenta Notai Capitolini
    Uff: Ufficio


    [1] Francesco Cerasoli, Censimento della popolazione di Roma dall’anno 1600 al 1739, in Studi e documenti di storia e diritto, 12, 1891, 169-199; Jean Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1957-1959, 1:135-220; Eleonora Canepari, Stare in ‘compagnia’: Strategie di inurbamento e forme associative nella Roma del Seicento, tesi di dottorato, Dipartimento di Storia, Università degli Studi di Torino 2005.

    [2] Patrizia Cavazzini, Painting as Business in Early Seventeenth-Century Rome, University Park, PA 2008, cap. 1.

    [3] Prendendo a campione l’anno 1630, si è scoperto come a quella data almeno la metà dei 30 notai capitolini era nata fuori Roma; Laurie Nussdorfer, Brokers of Public Trust: Notaries in Early Modern Rome, Baltimore 2009, 231-234.

    [4] ASR, TNC, uff. 11 (Ottaviano Saravezzi), 1593, pt. 1, vol. 25, ff. 425r-427v. Per le riunioni precedenti e successive si veda Introduction, The History of the Accademia di San Luca, c. 1590-1635: Documents from the Archivio di Stato di Roma, https://www.nga.gov/accademia/en/intro.html.

    [5] Per un quadro generale si veda Gregory Martin, Roma Sancta (1581), a cura di George Bruner Parks, Roma 1969.

    [6] Sergio Rossi, La Compagnia di San Luca nel Cinquecento e la sua evoluzione in Accademia, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 5, 1984, 373-374; Antonio Martini, Arti, mestieri e fede nella Roma dei papi, Bologna 1965.

    [7] Mary Hollingsworth, Miles Pattenden e Arnold Witte (a cura di), A Companion to the Early Modern Cardinal, Leiden 2020.

    [8] Si veda Isabella Salvagni, The Università dei Pittori and the Accademia di San Luca: From the Installation in San Luca sull’Esquilino to the Reconstruction of Santa Martina al Foro Romano, in Peter M. Lukehart (a cura di), The Accademia Seminars: The Accademia di San Luca in Roma, c. 1590-1635, CASVA Seminar Papers 2, Washington 2009, 69-121.

    [9] Peter M. Lukehart, Carving Out Lives: The Role of Sculptors in the Early History of the Accademia di San Luca, in Collecting Sculpture in Early Modern Europe, a cura di Nicholas Penny e Eike D. Schmidt, “Studies in the History of Art”, 70, Washington 2008, 185-217.

    [10] Laurie Nussdorfer, Writing and the Power of Speech: Notaries and Artisans in Baroque Rome, in Barbara Diefendorf e Carla Hesse (a cura di), Culture and Identity in Early Modern Europe (1500-1800), Ann Arbor, MI 1993, 105.

    [11] Rossi 1984, 371 nota 7.

    [12] Per il breve papale del 1577 si veda Monica Grossi e Silvia Trani, From Universitas to Accademia: Notes and Reflections on the Origins and Early History of the Accademia di San Luca Based on Documents from Its Archives, in Lukehart 2009, 40 nota 17.

    [13] ASR, TNC, uff. 15 (Erasto Spannocchia), 1624, pt. 3, vol. 101, f. 209r-v.

    [14] Citati da Noelle de La Blanchardière, Simon Vouet, prince de l’Académie de Saint-Luc, in “Bulletin de la Société de l’histoire de l’art français”, 1972, 80, n. 2, 90 appendice.

    [15] Il sito raccoglie le ricerche condotte da Noelle de La Blanchardière, Roberto Fiorentini, Matteo Lafranconi, Peter M. Lukehart, Pietro Roccasecca e Isabella Salvagni.

    [16] De La Blanchardière 1972, 80.

    [17] Nussdorfer 1993; Angela Groppi, Fili notarili e tracce corporative: la ricomposizione di un mosaico, in Mélanges de l’École française de Rome: Italie et Méditerranée, 112, 2000, 61-78.

    [18] Armando Petrucci, Notarii: Documenti per la storia del notariato italiano, Milano 1958, 29; Lauro Martines, Power and Imagination: City-States in Renaissance Italy, London 1980, 161-162.

    [19] Laurie Nussdorfer, Lost Faith: A Roman Prosecutor Reflects on Notaries’ Crimes, in Beyond Florence: The Contours of Medieval and Early Modern Italy, a cura di Paula Findlen, Michelle M. Fontaine e Duane J. Osheim, Stanford, CA 2003, 109-111. Si veda anche AASL, Statuti, 1609 [1607], f. 35v.

    [20] Chiamate adunantia o congregatio dai notai romani.

    [21] Rolandinus de Passageriis, Summa Totius Artis Notariae, Venezia 1546, 225. Si veda anche il formulario per le riunioni di una comunità rurale in Leo Speluncanus, Artis Notarie Tempestatis huius Speculum, Venezia 1538, ff. 211r-212v (ho utilizzato anche l’edizione del 1574 di questo trattato).

    [22] Per avere un’idea di questa pratica consuetudinaria si veda la riunione della confraternita di San Luca del 7 novembre 1599, che autorizzò la redazione di un atto che poneva fine al censo (diritti di pagamento) sulla casa lasciata ai pittori da Girolamo Muziano nel 1592: ASR, TNC, uff. 11 (Ottaviano Saravezzi), 1599, pt. 4, vol. 44, ff. 387r-388v. Per l’atto, rogato tre giorni dopo, si veda il f. 384r.

    [23] ASR, Biblioteca, Statuti, 1421, no. 879, 84.

    [24] Rossi 1984; Salvagni 2009.

    [25] Renata Ago, Una giustizia personalizzata: i tribunali civili di Roma nel XVII secolo, in “Quaderni storici”, 34, 1999, 399; Maria Luisa Lombardo, Il notaio romano tra sovranità pontificia e autonomia comunale (secoli XIV-XVI), Roma 2012.

    [26] Erectio 1586, in Statuta Venerabilis Collegii D.D. Notariorum Curiae Capitolii eorumque Facultates et Privilegia, Roma 1831 [da qui in avanti Statuta 1831], 41-53.

    [27] Reductio ad Perpetuitatem Officiorum DD. Notariorum Collegii Curiae Capitolii, 1612, in Statuta 1831, 54-62.

    [28] ASR, TNC, uff. 11 (Ottaviano Saravezzi), 1584, vol. 4, f. 30. Il primo atto porta la data del 29 dicembre 1584 e non 1583, perché a Roma il nuovo anno cominciava il 25 dicembre.

    [29] ASR, TNC, uff. 11 (Ottaviano Saravezzi), 1584, vol. 4, f. 452r. Ringrazio Paul Anderson per l’informazione sull’adesione di Saravezzi alla confraternita dei falegnami, e Peter M. Lukehart per avermi dato notizia dell’iscrizione alla confraternita dei Virtuosi al Pantheon.

    [30] Non sappiamo per certo se Saravezzi possedesse o meno l’ufficio 11, ma nel caso un investitore lo avesse acquistato, il nuovo proprietario avrebbe mantenuto Saravezzi come titolare. Tutti gli uffici notarili capitolini erano identificati dal nome dei notai che vi esercitavano, a prescindere da chi ne fosse il proprietario.

    [31] ASR, CNC, Registro delle congregazioni, Libro della massa, vol. 8 (1588-1598), f. 16r. Una percentuale degli introiti dell’attività giudiziaria (massa) erano messi in comune e divisi tra i trenta membri del collegio. In aggiunta a un giudice d’appello, il tribunale del Senatore era formato dal senatore stesso, da un giudice penale e da due giudici civili, il primo e il secondo collaterale.

    [32] Sebbene non siano sopravvissuti i manuali (registri delle attività giudiziarie quotidiane dell’ufficio) relativi al mandato di Ottaviano Saravezzi, un inventario dell’inizio del Settecento prende nota dei suoi volumi che raccoglievano le deposizioni dei testimoni e le sentenze giudiziarie: ASR, Camerale II, Notariato, busta 25, senza numeri di pagina, inventario dell’ufficio di Dominicus Ursinus. Cf. ASR, Tribunale Civile del Senatore, Inventario 286 I. Nel 1606 il notaio ricevette un pagamento per aver trascritto un ordine giudiziario dai Marmorari: Mauro Leonardo, Gli statuti dell’Università dei Marmorari a Roma: Scultori e scalpellini (1406-1756), in “Studi romani”, 45, 1997, 283 nota 73. In merito alla perdita su larga scala degli atti giudiziari dei notai capitolini si veda Laurie Nussdorfer, Roman Notarial Records between Market and State, in “The Social History of the Archive: Record-Keeping in Early Modern Europe”, a cura di Liesbeth Corens, Kate Peters, Alexandra Walsham, “Past and Present”, 230, supplemento 11, novembre 2016, 87-89.

    [33] Si veda, per esempio, ASR, inventario, TNC, uff. 1.

    [34] Soltanto il titolare poteva produrre copie cosiddette pubbliche dei documenti, ma le copie pubbliche, che costavano di più, sono quelle che i ricercatori riescono a visionare con minore probabilità, dal momento che venivano consegnate ai clienti.

    [35] Sebbene sia difficile identificare questi uomini prima della legge del 1612 che imponeva che firmassero i propri lavori, alcuni degli impiegati di Ottaviano Saravezzi possono essere rintracciati nei libri della massa: Pompeo Orsali (settembre 1593), Benedetto Orchus (ottobre 1593) e Angelo Falcinelli (luglio 1594); ASR, CNC, Registro delle congregazioni, Libro della massa, vol. 8 (1588-1598), senza numeri di pagina.

    [36] Questa gerarchia è esaminata più in dettaglio in Nussdorfer 2009, cap. 5.

    [37] Alcuni dei lavori di Palmuctius come scrivano dell’ufficio 15 sono rappresentati in ASR, TNC, uff. 15 (Spannochia), 1621, pt. 3, vol. 89, f. 260r-v; 1624, pt. 1, vol. 99, ff. 47r, 402r, 739r-v, 799r; 1624, pt. 3, vol. 101, ff. 25v, 274r; 1625, pt. 1, vol. 103, ff. 87v-88r, 103r; 1627, pt. 1, vol. 114, f. 833r.

    [38] Ridotto nel 1612 a un giorno: Bullarium Diplomatum et Privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum, 25 voll., Torino 1857-1872 [da qui in avanti Bullarium 1857-1872], 12:90, n. 43.

    [39] Statuta Almae Urbis Romae, Roma 1580, libro 1, art. 33. La costituzione papale del 1612 “Universi agri dominici”, che riformava i tribunali curiali e quelli civili, poneva particolare attenzione alle procedure delle scritture notarili: Bullarium 1857-1872, 12:86-97, in particolare 90 (nn. 42, 44). Nussdorfer 2009, 85-91.

    [40] ASR, TNC, uff. 11 (Ottaviano Saravezzi), 1593, parte 1, vol. 25. Un manuale notarile del Trecento definiva una congregatio come due uomini e un collegio come tre; Leo Speluncanus, Artis Notarie Tempestatis huius Speculum, Venezia 1574, f. 338r. Si veda Nussdorfer 2009, cap. 3.

    [41] “Accademia” veniva utilizzato frequentemente nel corpo dei documenti redatti nell’ufficio di Saravezzi, ma non appare nel sommario di un protocollo fino al passaggio dei pittori all’ufficio notarile 15 nel 1609; ASR, TNC, uff. 15 (Giovanni Antonio Moschenio), 1609, parte 2, vol. 45.

    [42] Nussdorfer 1993, 112; Lukehart 2008, 206.

    [43] Gli uffici dei 30 membri del collegio notarile della curia capitolina ricevettero numeri archivistici nell’Ottocento, che furono però in seguito modificati. Utilizzo la numerazione moderna. Per la lista dei funzionari si veda Romina De Vizio, Repertorio dei Notari Romani dal 1348 al 1927 dall’Elenco di Achille Francois, Roma 2011. Sui recenti tentativi di aggiornare queste informazioni si veda Paolo Buonora, Notarilia: L’informatizzazione dei fondi notarili dell’Archivio di Stato di Roma, in Orietta Verdi e Raffaele Pittella (a cura di), Notai a Roma. Notai e Roma, Roma 2018, 205-208.

    [44] Groppi 2000, 63-64. La corporazione dei falegnami pagava inoltre il suo notaio 5 scudi l’anno; ASR, Biblioteca, Statuti, 377/5, f. 32v.

    [45] Menzionato in un codicillo al testamento del loro segretario, il notaio capitolino Lorenzo Bonincontro; ASR, TNC, uff. 18 (Grappolini), Testamenti, 1634-1639, vol. 7, f. 19v.

    [46] AASL, Statuti, 1609 [1607], fa riferimento a un secretario accademico (f. 37r) che chiaramente non è un notaio, ma Spannocchia si riferisce a sé stesso come secretarius quando firma il manoscritto degli statuti del 1619 (8 gennaio 1619): AASL, Statuti, 1619, f. 28r. Si vedano anche ASR, TNC, uff. 15 (Erasto Spannocchia), 1622, parte 2, vol. 91, f. 593r-v; de La Blanchardière 1972, 80.

    [47] ASR, TNC, uff. 15 (Erasto Spannocchia), 1623, parte 1, vol. 95, f. 321r-v. Ricevette anche uno stipendio arretrato di 15 scudi e questo fa semmai sorgere dubbi su quanto fosse stato pagato nei cinque anni precedenti.

    [48] Un esempio di questa consuetudine lo si trova nella stima trovata in ASR, TNC, uff. 15 (Erasto Spannocchia), 1618, parte 2, vol. 76, f. 637r-v.

    [49] Si veda Antonino Bertolotti, Artisti belgi ed olandesi a Roma nei secoli XVI e XVII, Firenze 1880, 178. Originariamente in ASR, Tribunale criminale del Governatore, la petizione fu ricollocata da Bertolotti in ASR fondo Miscellanea artisti, busta 2, fasc. 100; ripubblicata in Lukehart 2009, 365. Una data è stata aggiunta al documento originale da una mano posteriore.

    [50] AASL, Statuti, 1609 [1607], f. 39r. Citato anche in Grossi e Trani 2009, 40 nota 28.

    [51] ASR, TNC, uff. 11 (Alessandro Saravezzi), 1609, parte 2, vol. 81, f. 85r.

    [52] ASR, TNC, uff. 11 (Alessandro Saravezzi), 1609, parte 2, vol. 81, f. 213r.

    [53] ASR, TNC, uff. 15 (Giovanni Antonio Moschenio), 1609, pt. 2, vol. 45, fol. 548r. Si veda anche la banca dati del Tribunale Civile del Senatore per la controversia per conto dell’Accademia nel 1613. Il contenzioso dell’Accademia si spostava ora dal secondo al primo collaterale dei giudici del Tribunale Civile del Senatore, perché era a quest’ultimo che l’ufficio 15 prestava servizio.

    [54] Ringrazio Matteo Lafranconi per l’identificazione di Moschenio come notaio di Celio; si veda il sommario di ASR, TNC, uff. 15 (Giovanni Antonio Moschenio), 1608, parte 2, vol. 45.

    [55] ASR, TNC, uff. 15 (Giovanni Antonio Moschenio), 1610, parte 3, vol. 49, f. 376r; 1612, parte 1, vol. 53, f. 166r; 1615, parte 3, vol. 65, f. 31r (“camerarius et secretarius”); 1616, parte 1, f. 924r. I notai svolgevano funzioni bancarie di routine per i clienti, come trattenere depositi, ma nella maggior parte dei casi non si occupavano formalmente dei conti delle organizzazioni.

    [56] Si veda Pietro Roccasecca, Teaching in the Studio of the ‘Accademia del Disegno dei pittori, scultori e architetti di Roma’ (1594-1636), in Lukehart 2009, 123-159.

    [57] AASL, vol. 2a.

    [58] De La Blanchardière 1972, 81-83.

    [59] ASR, TNC, uff. 15 (Lorenzo Tigrino), 1625, parte 2, vol. 104, f. 681r-v.

    [60] Renata Ago et al., I trenta notai capitolini: schedatura dei protocolli del 1645, in Eugenio Sonnino (a cura di), Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, Roma 1998, 382. Salvatore succedette a Tigrino come titolare entro il 1628.


    Immagine: Pieter Brueghel il Giovane, Village Lawyer (particolare), 1621, Museum voor Schone Kunsten Gent